27 Agosto 2025 - 8.53

Quell’Europa che avevo sognato da ragazzo

Umberto Baldo

Un amico di vecchia data, uno di quelli con cui ho condiviso anni di lavoro, discussioni, entusiasmi e delusioni, mi ha fatto notare recentemente che nei miei scritti si avverte sempre più un tono disilluso.
Non tanto nello stile, che forse si è fatto più ironico, ma nei contenuti, che trasudano una certa stanchezza, quasi un’amara constatazione: il sogno che avevo da giovane, quello dell’Europa, sembra essersi sbriciolato.
Sulla natura dell’uomo, lo confesso, non ho mai avuto grandi illusioni.
Del resto, la nostra tradizione religiosa colloca come primo episodio dell’umanità un fratricidio: Caino e Abele.
È difficile immaginare un simbolo più potente, un archetipo più calzante.
La violenza, la sopraffazione, l’invidia: tutto era già lì, all’inizio, scritto nel nostro codice genetico.
Non ci si deve stupire quindi se la storia dell’uomo sia costellata di guerre, massacri, odi tribali e vendette infinite.
Eppure un sogno, almeno da ragazzo, me lo sono concesso.
Era l’Europa.
Lo ricordo bene quel sogno.
Da giovane militante del Partito Repubblicano, guardavo a figure come Ugo La Malfa con un rispetto che oggi definiremmo quasi religioso.
Non perché fosse un santo, ma perché aveva la lucidità di vedere più lontano.
La Malfa, forse il più europeista dei leader politici di quegli anni, parlava di Europa come di un’urgenza storica, non come di un lusso intellettuale.
Non come una “bella idea”, ma come una necessità.
Per lui l’unificazione europea non era retorica, era condizione vitale: l’unico modo per dare stabilità alla fragile democrazia italiana, per impedire che il nostro Paese finisse risucchiato nel Mediterraneo della Libia, dell’Egitto, della Tunisia, dall’Algeria, diventando così la propaggine settentrionale di un Nordafrica inquieto.
E io, giovane repubblicano, ci credevo. Ci credevo davvero.
Non era ingenuità, era fiducia: l’idea che un’Europa unita avrebbe garantito pace, libertà, benessere.
Non necessariamente quella visionaria e lirica di Ventotene, piena di parole alte come il cielo. Ma un’Europa concreta, ambiziosa, costruita sulla memoria delle macerie della guerra e sulla promessa solenne del “mai più”.
Sognavo un continente capace di essere più della somma dei suoi Stati.
Una comunità di diritti e di doveri, di libertà e di responsabilità.
Un’unione politica, non solo economica; culturale, non solo mercantile.
Un embrione di federazione, non un superstato: una casa comune in cui riconoscerci cittadini europei prima ancora che italiani, francesi o tedeschi.
E invece, guardandomi attorno oggi, faccio fatica a riconoscere quell’Europa.
La mia Europa.
Cosa vedo? Vedo un’Unione che spesso viene percepita dai suoi stessi cittadini come un immenso baraccone burocratico, utile solo a stabilire regole minuziose e incomprensibili – la curvatura dei cetrioli, il woltaggio delle lampadine – e impotente di fronte alle grandi questioni del nostro tempo: la geopolitica, la difesa, l’energia, i rapporti con i giganti del pianeta.
Abbiamo creduto che bastasse il mercato. Ci siamo illusi che l’euro fosse di per sé un collante politico.
Abbiamo delegato all’economia ciò che avrebbe dovuto essere compito della politica.
E così, quando sono arrivate le vere sfide – la crisi finanziaria del 2008, l’ondata migratoria, il Covid, e infine la guerra alle porte dell’Ucraina – abbiamo scoperto di non avere il cemento che ci tenesse insieme.
L’Europa della moneta sì, quella l’abbiamo costruita. L’Europa della solidarietà, no.
Abbiamo celebrato Erasmus e i voli low cost, salvo dimenticare di educare i giovani al significato profondo di “essere europei”.
Abbiamo invocato diritti comuni, ma ci siamo divisi sui doveri.
Chi ha tradito allora quell’ideale?
Un po’ tutti.
La classe politica, certo.
Negli anni ’90 si è preferita la via della moneta unica piuttosto che quella della comunità politica.
Abbiamo avuto l’euro prima dell’Europa dei cittadini.
E così, quando il vento ha iniziato a soffiare contrario, non c’era una volontà popolare capace di tenere insieme i pezzi.
Ma anche i popoli hanno la loro parte di colpa. Troppo spesso hanno ceduto al richiamo della “piccola patria”, della scorciatoia identitaria, del localismo miope.
Quando c’era da condividere responsabilità e sacrifici, molti hanno preferito accusare Bruxelles di tutti i mali, salvo poi incassarne i benefici.
In ogni angolo si alzano steccati: culturali, politici, linguistici, perfino morali.
Con il paradosso che molti dei Paesi più nazionalisti sono proprio quelli che hanno maggiormente beneficiato dell’integrazione europea.
La fine dell’Unione Sovietica, che pure fu salutata come un’opportunità storica, ha generato più disordine che equilibrio.
I Paesi dell’Est, accolti con entusiasmo, si sono spesso rivelati i più euroscettici, i più refrattari a quei valori liberali che avrebbero dovuto unire.
E l’Occidente europeo, stanco e confuso, non ha saputo indicare una rotta
E non dimentichiamo gli intellettuali, i media, le università. Anche lì è mancata la pedagogia. Troppo comodo dipingere Bruxelles come il mostro burocratico, troppo semplice fare dell’euroscetticismo la scorciatoia populista.
Si è smesso di spiegare che l’Europa non è un fastidio, ma una necessità storica.
Oggi, dopo decenni di illusioni, ci accorgiamo che l’Europa che abbiamo costruito non è quella che avevamo sognato. Che la nostra Unione è forte con i deboli e debole con i forti.
Che persino con Trump – il più “anti-europeo” dei presidenti americani – non siamo stati capaci di negoziare da pari a pari.
Perché nel mondo conta la politica, non le formule magiche degli eurocrati.
Ecco allora la mia amarezza: abbiamo edificato un grande mercato, ma senza dargli un’anima politica. Abbiamo dato regole, ma non visione. Abbiamo creato un gigante economico con i piedi d’argilla.
Eppure, nonostante la delusione, non riesco a rassegnarmi.
C’è una generazione che viaggia, che studia, che si incontra, che si mescola. Una generazione che non conosce barriere linguistiche o culturali come le conoscevamo noi. È a loro che dobbiamo dire che la pace non è un’eredità garantita, ma una conquista quotidiana.
Che difendere la libertà significa, se serve, anche combattere, e non solo sventolare bandiere colorate in manifestazioni inconcludenti ed ideologiche.
Forse non tutto è perduto. Forse c’è ancora un filo, seppur spezzato, che si può riallacciare.
Io resto aggrappato a quel mio sogno di ragazzo: o l’Europa sarà unita, o non sarà affatto.
E nei momenti più bui, quando la disillusione sembra totale, è proprio allora che bisogna tornare a credere nei sogni.
E magari anche nei miracoli.
Umberto Baldo

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