6 Giugno 2025 - 9.22

Referendum e memoria corta

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Umberto Baldo

Il tempo passa inesorabilmente e siamo quindi arrivati al week end in cui si voterà per i 5 Referendum promossi sostanzialmente dalla Cgil, cui si sono accodati tutte le forze di sinistra, o progressiste se preferite.

Ve ne ho già parlato l’8 maggio scorso (https://www.tviweb.it/referendum-8-9-giugno-non-votare-e-un-diritto-garantito-dalla-costituzione/), e poiché un lettore mi ha accusato sostanzialmente di indurre i lettori a non votare, avendo io sostenuto che si tratta di quesiti “astrusi”, oggi mi guarderò bene dal dare indicazioni di voto (che comunque non c’erano neanche nel pezzo in questione).

Forse sarà la mia innata passione per la storia, e comunque per gli avvenimenti passati, ma soprattutto perché so bene che gli italiani hanno la memoria corta, mi limiterò a ripercorrere la vicenda del Job Act (il quesito sulla cittadinanza agli stranieri risponde ad altra logica), e dei relativi protagonisti.  

Innanzi tutto credo vada chiarito di cosa parliamo.

In estrema sintesi Jobs Act è il nome con cui è conosciuta la legge n. 183 del 10 dicembre 2014, voluta fortemente dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che attribuiva al Governo la delega per riformare il mercato del lavoro. 

I decreti attuativi furono poi approvati nel 2015, tra cui il più noto è quello che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, e la sostanziale abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Di conseguenza è agevole ricostruire quali partiti votarono a favore e quali contro la legge sul Jobs Act

Il 25 novembre 2014 alla Camera dei Deputati hanno votato a favore il Partito Democratico (tutti o quasi i deputati e senatori PD votarono “si”, tranne poche eccezioni interne alla minoranza Dem); il NCD (Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, allora parte della maggioranza); Scelta Civica (anch’esso nella maggioranza governativa); Popolari per l’Italia; Gruppo delle autonomie; alcuni Senatori e Deputati del Gruppo Misto, ex montiani o centristi.

Contro hanno votato il Movimento 5S, la Lega Nord, Sinistra Ecologia e Libertà (SEL di Nichi Vendola), Fratelli d’Italia, Forza Italia.

Quindi nel dicembre 2014 il Parlamento approvava la legge 183/2014, meglio nota come Jobs Act. 

Un nome anglofono per una riforma tutta italiana, nata nel cuore del Partito Democratico di Matteo Renzi, con l’ambizione dichiarata di modernizzare il mercato del lavoro, renderlo più flessibile, più inclusivo, più “europeo”.

A distanza di dieci anni, il Jobs Act è però diventato il parente scomodo della politica italiana. 

Lo si rinnega o lo si rievoca a seconda delle convenienze del momento, con una disinvoltura che sfiora il patologico. 

Chi lo ha voluto oggi lo vuole smontare, chi lo ha osteggiato ora ne difende principi o risultati.

Come spesso accade nella politica italiana, una riforma strutturale – nata con toni da Rivoluzione francese – oggi viene trattata come un parente scomodo da rinnegare o riesumare a seconda del pubblico e dell’ora del giorno.

All’epoca, la sinistra interna del PD (40 deputati sul totale di 307 del Gruppo Dem) gridava al tradimento; il M5S e SEL lo definirono “una svendita dei diritti”; la Lega di Salvini parlava di “porcata di Renzi”, mentre Forza Italia fingeva interesse ma stava al balcone. 

Un classico.

Ora, dieci anni dopo, il bello è che quasi nessuno vuole più ammettere di averlo votato. 

Il Partito Democratico, oggi in mano alla Segretaria Elly Schlein, molto più movimentista e affine ai Centri Sociali, sembra avere rimosso il proprio passato.

Non solo non lo difende, ma lo attacca in modo confuso, come se fosse colpa altrui, tanto da scegliere il perfetto allineamento con le posizioni della Cgil, che poi è il vero promotore della consultazione referendaria

La destra, che allora si opponeva, non l’ha mai abolito, e anzi – una volta al governo – non ci ha proprio messo mano. 

Conte e il M5S, che lo volevano spazzare via “al primo Consiglio dei ministri”, in bendue governi (uno con la Lega e l’altro con il PD) non hanno toccato una virgola della riforma, nemmeno durante la pandemia. 

La Lega lo definiva una “porcata”. Ma al governo nel Conte I, e ora con Meloni, non ha mai proposto una abrogazione del Jobs Act. 

Fratelli d’Italia, oggi alla guida del Governo, ha attaccato il Jobs Act a parole, ma non ha inserito alcuna modifica strutturale nei suoi provvedimenti. Nella legge di bilancio 2024, Meloni ha previsto incentivi all’assunzione… ma sul contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act!

E Renzi?  Beh Renzi fa Renzi: lo rivendica come “la più grande riforma del lavoro degli ultimi trent’anni”, e ogni critica per lui è populismo o ignoranza.

Nel frattempo, il Jobs Act è rimasto in piedi. 

Come quelle statue in piazza che tutti ignorano, salvo poi usarle per selfie ideologici. 

Lo si accusa di avere creato precarietà?   Ma i contratti precari sono gli stessi di prima, se non meno.

Lo si elogia perché ha aumentato l’occupazione? Ma l’incremento fu legato agli sgravi contributivi del 2015 più che alla riforma in sé.

In realtà, il Jobs Act è diventato un totem da abbattere o difendere a turno, a seconda della necessità politica. 

Una foglia di fico da agitare nei talk show. 

Nessuno ha il coraggio di dire che il problema vero non è il Jobs Act, ma l’incapacità cronica della politica italiana di affrontare seriamente il tema del lavoro, senza ideologia, senza scorciatoie, e soprattutto senza la solita amnesia selettiva.

Chi lo ha votato, oggi finge di non conoscerlo. Chi lo ha combattuto, ora lo difende con toni prudenti. 

E alla fine, il lavoratore italiano resta al solito punto: spesso precario, poco pagato, poco tutelato, mentre i partiti fanno e disfano leggi a seconda del vento.

Altro che Jobs Act: qui servirebbe un Memory Act, obbligatorio per ogni Parlamentare prima di entrare in aula. 

Un bel test di coerenza. 

Perché governare non vuol dire solo cambiare idea, ma avere il coraggio di ricordarsi almeno di avercela avuta.

In mezzo al valzer delle posizioni sul Jobs Act, in particolare con il PD che oggi rinnega ciò che ieri difendeva, spicca la CGIL: l’unica a mantenere una linea costante, ferma, inflessibile, tenacemente vendicativa contro Renzi.

Per quanto mi riguarda io penso che il Jobs Act sia diventato un simbolo vuoto, buono per ogni uso retorico.  

Nel senso che, se serve, si difende in nome della “modernizzazione”, se invece conviene, lo si attacca in nome dei “diritti”. 

Intanto, nessuno ha il coraggio di dire che la riforma è rimasta monca, che il mercato del lavoro è ancora frammentato, che i lavoratori sono soli davanti ad una giungla contrattuale.

Peggio: nessuno ha il coraggio di ricordare le proprie responsabilità. 

In un Paese normale, un partito che ha votato una riforma strutturale dovrebbe difenderla o correggerla, non rinnegarla alla prima curva elettorale. 

Qui invece si recita un copione amnesico, in cui si fa finta di non essere stati lì, di non avere alzato la mano, di non avere letto i commi.

Mi fermo qui, non perché volendo non ci sia altro da dire, ma per rispetto del momento elettorale.  

Non vi dirò se andrò a votare o meno, per cui ragazzi, ognuno decida in base alle proprie convinzioni.

Quindi buon voto, o in alternativa buon mare!

Umberto Baldo

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