29 Luglio 2025 - 12.42

Ursula, il tycoon e l’indegno pollaio europeo

Dopo lo shock iniziale – perché di vero e proprio shock si è trattato, comunque la si pensi – leggendo le reazioni scomposte del pollaio di Bruxelles (dove per “pollaio” intendo quel gruppo di galli e gallinelle spennacchiate che risponde al nome di leadership europea), mi sono detto: ma siamo davvero convinti che sia tutta colpa di Ursula.

Le critiche  a caldo alla Von der Leyen a m io avviso sono state ingenerose. 

E lo dico chiaro: perché ogni trattativa – politica o commerciale che sia – si fa con le carte che si hanno in mano. 

E se noi affidiamo una missione del genere a una signora dai modi impeccabili, tutta bon ton e pettinatura da catechismo, mandandola a confrontarsi con un energumeno dai modi spicci, ego smisurato, vocabolario limitato, ossessionato dai soldi e dai suoi campi da golf… poi ci stupiamo se torna a casa con le ossa rotte?

Ma dai, su. Cos’altro ci aspettavamo? 

Certo, si poteva evitare la sceneggiata scozzese e fare l’incontro a Bruxelles o Washington, non nel giardino privato del tycoon con la mazza da golf in mano e lo sguardo da padrone del mondo. 

Ma qui parliamo di forma, non di sostanza.

E la sostanza è che l’Europa, quella vera, quella dei popoli e delle economie, si conferma per l’ennesima volta un gigante coi piedi d’argilla. 

Una costruzione incompiuta, lenta, indecisa, incapace di far valere una voce univoca nel nuovo risiko geopolitico dove contano i muscoli, i minerali strategici e le alleanze mobili.

E cosa pretendevamo? 

Che la “baronessa” Von der Leyen – che guida una Commissione con meno potere di un sindaco di provincia – imponesse a Trump i desiderata dell’Unione Europea? 

Suvvia, non prendiamoci in giro.

Ursula ha fatto quello che poteva. E, nelle condizioni date, con le pressioni che aveva addosso e le armi spuntate che aveva sul tavolo, forse ha ragione a dire che “si è portato a casa il massimo”. 

Anche perché, se non si fosse chiuso un accordo, seppure raffazzonato e con i piedi d’argilla, il 1° agosto sarebbero scattati i dazi al 30% e addio commercio transatlantico.

Nel frattempo, a Bruxelles, a Berlino e a Roma i telefoni bollivano. 

Le imprese – tutte, da Nord a Sud – premevano per evitare il peggio (quindi per un accordo che ponesse fine all’incertezza). 

I grandi Paesi esportatori (Germania, Italia, Irlanda) chiedevano una linea soft, mentre la Francia e la Spagna – che con gli USA esportano molto meno – tuonavano contro il “cedimento all’America”. 

Facile fare i duri quando non sei tu a rimetterci i miliardi.

E vogliamo davvero credere che la linea di Macron e Sánchez avrebbe ottenuto qualcosa di meglio? 

Dai su. In Francia e Spagna i governi sono appesi a un filo, senza maggioranza e senza bilanci approvati. 

Figurarsi se potevano trattare alla pari con un bulldozer come Trump.

Alla fine, messo da parte l’improbabile “bazooka” europeo, a Ursula non restava che andare a Canossa. 

O, se preferite, a giocare a golf col diavolo in kilt.

Trump, da vecchio pokerista, fiuta l’avversario: se sente debolezza, rilancia; se trova resistenza, frena. 

E infatti le sue trattative con il resto del mondo sono state a geometria variabile: morbide con Canada, Regno Unito, Brasile, più tese con la Cina, che ha un’arma in più: le terre rare, in grado di bloccare l’economia americana. 

Con l’Europa invece ha fatto la voce grossa, ha spinto e… ha vinto.

I dazi arriveranno comunque. 

Più alti per tutti. Ma intanto l’Europa evita il collasso a breve termine. 

E Ursula, povera dama galante in un mondo di bulldog, resta lì con la sua faccia d’acciaio e i poteri dimezzati.

Ha fatto quello che poteva fare. Né più, né meno.

Ben diverso è il discorso sui politici italiani.

Salvini, ad esempio, dovrebbe ricordare che Internet ha buona memoria. 

Basta andare a rivedere i suoi video di marzo: “I dazi sono un’opportunità per le imprese italiane”… “Trump può salvare l’Occidente”… 

Ora, col cerino in mano e gli industriali che gli tirano la giacca, ha cambiato spartito. Trump non si nomina più, meglio tornare al vecchio disco sulle “burocrazie di Bruxelles”. 

Che funziona sempre, anche quando non c’entra nulla.

E Meloni? 

Beh, lei sembra non aver toccato palla. 

Convinta com’era di essere il ponte fra Europa e America, si ritrova ora a far da traghettatrice di una “sostenibilità” che nessuno ha capito bene cosa significhi. 

Annuncia aiuti, ristori, cerotti per imprese colpite. Come sempre. Perché ormai, in Italia, il rischio d’impresa lo paga Pantalone. 

E chi perde quote di mercato, anziché ripensare prodotti e strategie, bussa a Palazzo per farsi indennizzare.

È diventato un riflesso pavloviano. Si perde un appalto? Aiuti. Si chiude uno stabilimento? Contributi. Si esporta meno? Fondo perduto.

l dramma non è Ursula, è questa mentalità.

Ecco perché, pur senza lodi sperticate, non me la sento proprio di condannare la Von der Leyen. 

Almeno lei, pur nella palude,  ci ha messo la faccia ed ha provato a tenere a galla la barca. 

Gli altri invece, come al solito, nuotano a vista… con la barchetta gonfiata dai contribuenti.

Umberto Baldo

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