22 Dicembre 2025 - 9.43

Un ponte chiamato Erasmus: Londra torna a guardare l’Europa

Umberto Baldo

Il Regno Unito torna nell’Erasmus.
E già questo, da solo, vale più di molti vertici pieni di sorrisi forzati e dichiarazioni anodine.
Perché Erasmus non è solo un programma di scambi universitari: è stato, per almeno due generazioni di giovani europei, il simbolo concreto di un’Europa senza frontiere, vissuta prima ancora che teorizzata.
Un’Europa fatta di treni notturni, lingue improvvisate, amicizie durature e amori transnazionali.
L’intesa, annunciata da giorni nel consueto tam tam mediatico, è stata ora certificata da un comunicato congiunto di Londra e Bruxelles.
Un atto che riapre le porte a quel modello di contaminazione culturale che il Regno Unito aveva abbandonato – non senza proteste interne – circa cinque anni fa, all’atto finale del divorzio dall’Unione.
In termini concreti, Londra rientrerà nello schema Erasmus Plus a partire dal 2027, pagando una quota di partecipazione come Paese partner esterno.
Nulla di rivoluzionario, ma abbastanza per segnare una discontinuità simbolica forte: si torna ad investire sui giovani, sulle relazioni, su un’idea di futuro condiviso.
Per un europeista convinto, come chi scrive, è senza dubbio una bella notizia.
Pensare però che questo possa rappresentare l’inizio di una marcia indietro capace di cancellare la Brexit sarebbe un azzardo.
È vero che i sondaggi YouGov indicano come una parte consistente degli inglesi oggi rimpianga il “sì” espresso nel referendum del 2016.
Ma i numeri, in questo caso, vanno maneggiati con cautela.
Se sulla carta circa il 55% degli intervistati si dice favorevole ad un ritorno nell’Unione, la percentuale scende drasticamente – fino a circa il 39% – tra coloro che sarebbero davvero disposti a sostenere una retromarcia concreta.
È il fenomeno ribattezzato “Bregret”: una miscela di rimpianto e realismo, che però non basta a costruire una maggioranza politica solida.
Uno zoccolo duro che, secondo molti analisti, non garantirebbe affatto l’esito di un eventuale referendum bis, ammesso e non concesso che se ne creino le condizioni.
Ipotesi che il nuovo governo laburista di Keir Starmer ha escluso in modo netto.
Dopo quattordici anni di governi conservatori, e di premier fieramente brexiteer come Johnson e Sunak, Starmer, che nel 2016 sostenne il Remain, preferisce non riaprire una ferita ancora divisiva.
Il suo approccio è quello di un “reset” prudente con Bruxelles: relazioni più cooperative, toni meno ideologici, ma nessuna messa in discussione dei pilastri della Brexit.
Fuori restano il mercato unico, l’unione doganale e, soprattutto, la libertà di movimento delle persone.
C’è però un elemento che non può essere ignorato: il mutato contesto geopolitico.
L’erosione delle vecchie certezze dell’ordine internazionale costringe tutti a ripensare ruoli e alleanze.
Ed è comprensibile che il Regno Unito cerchi di preservare la propria funzione storica di ponte tra Washington e l’Europa, provando a rilanciare una centralità post-Brexit come collante tra le due sponde dell’Atlantico.
In questo disegno – o forse sarebbe più corretto dire in questa speranza – si è inserita con forza la guerra in Ucraina.
Una crisi che ha riportato Londra, per la prima volta dal 2016, al centro della scena europea, dimostrando come la Brexit non abbia realmente separato gli obiettivi strategici che uniscono Bruxelles ed il Regno Unito.
In un mosaico in continua ricomposizione, Keir Starmer ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano: prima ospitando a Londra un summit con alcuni dei principali leader europei, poi assumendo, insieme alla Francia, la guida della cosiddetta “coalizione dei volenterosi” per offrire garanzie di sicurezza a Kiev, anche attraverso l’ipotesi di un contingente militare sul terreno.
Un attivismo che ha suscitato reazioni vivaci, in patria e all’estero, al punto da spingere alcuni osservatori a parlare di un “momento Churchill”.
Un paragone impegnativo, forse eccessivo, ma indicativo di come la politica estera britannica sia tornata a pesare.
La formula della coalizione dei volenterosi, emersa anche per superare le resistenze di alcuni Stati membri dell’Ue, sembra indicare una tendenza verso modelli di cooperazione flessibili, costruiti per cerchi concentrici.
In teoria, l’attuale crisi suggerirebbe il bisogno di strutture più solide; in pratica, resta da capire se prevarranno soluzioni agili, anche fuori dal perimetro istituzionale europeo.
Qui non si parla di fumo diplomatico, ma di scelte concrete: integrazione militare, spese comuni per la difesa, filiere industriali condivise.
Ed è proprio su questo terreno che il “reset” politico si intreccia con quello economico.
L’aumento delle spese per la difesa in ambito Ue riaprirà inevitabilmente il dossier sulla partecipazione dei Paesi terzi ai programmi di approvvigionamento militare, tema sensibile per Londra, alle prese con una fase economica tutt’altro che brillante.
In cambio, il Regno Unito potrebbe aspettarsi maggiore flessibilità europea su dossier commerciali delicati: accordi sanitari, fitosanitari, barriere non tariffarie e quant’altro.
Il tutto sotto l’ombra lunga di Donald Trump, che potrebbe leggere un riavvicinamento Londra-Bruxelles come uno schieramento sgradito.
E non è un mistero che il personaggio abbia la memoria lunga ed il rancore facile.
Starmer, insomma, si muove su un terreno scivoloso. E la sua cautela non sorprende.
Ma, al netto di tutti i calcoli strategici, il ritorno dell’Inghilterra in Erasmus merita di essere accolto con entusiasmo.
Perché riapre porte, crea legami, semina futuro.
E, come sempre, qualunque strada – anche la più lunga – comincia da un primo passo.
Umberto Baldo

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