10 Dicembre 2025 - 9.41

Quando per socializzare bastava entrare in un Bar, non in un’App

Umberto Baldo

Negli ultimi giorni mi è capitato di leggere l’ennesimo articolo sull’isolamento dei ragazzi di oggi e sul ruolo micidiale che gli smartphone hanno nel chiuderli in una bolla che assomiglia più a una tana che ad una piazza.
Nulla di nuovo: se ne parla da anni, si lanciano allarmi, si organizzano convegni… e intanto non cambia niente.
A quel punto, come spesso mi succede, il pensiero è tornato di colpo alla mia adolescenza, ormai parecchio lontana.
Un’epoca in cui il massimo della tecnologia era il telefono fisso nel corridoio di casa, e per il resto la vita si costruiva stando insieme.
Non c’erano alternative: se volevi vivere, dovevi incontrare qualcuno.
Sono nato in un paesino del Padovano, abbastanza piccolo da essere un modello perfetto per capire com’era la vita di provincia in tutto il Veneto, e forse in tutta Italia.
Le giornate, a parte scuola e studio, scorrevano tra passeggiate infinite con gli amici, scorribande in bicicletta, partitelle su campi improvvisati, discussioni interminabili, musica ascoltata con il mangiadischi, qualche festina sotto l’occhio severo dei genitori delle ragazze… nulla di eccezionale, ma era così che ci si costruiva. Tutto passava di lì.
E però due erano i veri centri di aggregazione della nostra vita: il Patronato e il Bar.
Due mondi separati, due atmosfere completamente diverse.
Il Patronato era territorio parrocchiale, un luogo pensato per “intrattenere i giovani” ma sempre sotto l’ala del parroco. Col tempo erano arrivati i campi da calcio, la sala giochi, la sala bar… ma l’impronta rimaneva quella. C’era il controllo morale, il richiamo alla catechesi, l’ambiente “per bene”.
Il Bar invece era tutt’altra storia: lì il prete non c’era, e la differenza si vedeva.
E soprattutto c’erano gli adulti.
Non che ci fosse vera mescolanza tra generazioni, ma la convivenza creava un’atmosfera più viva, più autentica.
Era il luogo in cui, anche a sedici anni, ti sentivi per un attimo “grande”.
Al Bar si andava sempre. Al mattino per un cappuccino veloce e una brioche; salvo i casi degli ubriaconi cronici che avevano il coraggio di presentarsi alle 7 chiedendo un Ramazzotti o un Petrus Boonekamp, ed al tuo sguardo stupito si giustificavano dicendo: “ho ancora sullo stomaco la cena dei ieri sera” (sic!).
Il gestore faceva finta di credergli, ma specificando che prima delle 10,30/11 brandy o grappa erano off limits.
Il bar che frequentavo cambiava spesso gestione, il che era curioso perché era molto frequentato, e indubbiamente guadagnava.
Non era certo un locale a livello da Harry’s Bar, ma una volta uno dei nuovi gestori provò a portare un po’ di “stile”.
Veniva da un bar elegante di Padova, uno di quelli frequentati dalla “Padova bene”, ed il primo giorno si presentò in giacca bianca immacolata, con tanto di spalline e alamari dorati.
Io ero al bancone, stavo bevendo un caffè, quando entrò Giulio: una macchietta del paese, sempre un po’ alticcio, appassionato di boxe e… sempre in posizione di guardia.
Giulio ordinò un “macchiato”.
Il nuovo barman, elegantissimo, con movenze professionali gli preparò un caffè macchiato perfetto, con tanto di schiuma arabescata.
Apriti cielo. Giulio esplode: bestemmie, insulti, accuse di incompetenza.
Perché per lui “macchiato” significava solo una cosa: vino bianco + Aperol.
Fine.
Il povero gestore capì all’istante dove era capitato e, da quel giorno, giacca bianca ed alamari sparirono per sempre.
In quei tempi, in paese c’erano molti bar. Ognuno aveva una sua anima: quello dei più adulti, quello dei bevitori seri, quello dei giocatori di carte…
Il mio era considerato il bar dei giovani, anche se dentro ci stava un po’ di tutto.
E cosa si faceva al bar?
Ricordo che alle prime “uscite” un ragazzo cercava di capire dove si trovava, le caratteristiche della clientela, i servizi offerti
Nel mio bar c’era il flipper acceso dalla mattina fino a notte; due biliardi — uno per la stecca, uno per le boccette; grandi spazi con tavoli e sedie per le carte; ed un’umanità che sembrava uscita da un romanzo.
I giocatori incalliti passavano serate intere, soprattutto i sabati e le domeniche, a sfidarsi a “Ramino” o a “Scala 40”, sempre a soldi (dopo un paio d’ore, per il fumo di sigaretta, si faceva fatica a riconoscere le persone).
Una volta mi è capitato di vedere una moglie entrare e prendere per un orecchio il marito, portandolo fuori fra urla e improperi.
Noi ragazzi—con meno disponibilità economiche ma anche con minore propensione al gioco d’azzardo — giocavamo a briscola o a tressette, con in palio la consumazione.
A forza di stare lì durante le nebbiose serate invernali, imparavi anche a giocare a biliardo; e poi un giorno ti trovavi ammesso a sedere al tavolo di quelli che erano considerati i “migliori” giocatori.
Era un rito di passaggio, una sorta di “promozione”, di “investitura”. Da quel momento eri a tutti gli effetti “uno del Bar”.
Il bar era però molto più di un luogo dove si beveva (almeno per me che sono astemio da sempre).
Era un centro sociale vero, un punto di incontro e di discussione.
Si leggevano i giornali, si parlava con il barista, si raccontavano storie.
E d’estate si litigava — con passione, eh — su Merckx e Gimondi, sulle tappe del Giro e del Tour, fino a notte fonda.
In inverno, stessa cosa ma col calcio: gli sfottò, le polemiche, le analisi tattiche infinite.
A volte, si stava seduti all’aperto a disputare urlando fino alle due/tre di notte, con la conseguenza che qualche inquilino dei piani alti ci innaffiava con un bel secchio di acqua (almeno così si sperava).
Ogni bar aveva il suo “territorio”, ed i clienti si riconoscevano tra loro come membri di una piccola tribù.
Quando un bar chiudeva, passare a un altro non era semplice: sembrava quasi un’invasione di territorio altrui. E nei paesi la geografia dei bar era spesso anche politica: c’era il bar “di destra”, quello “di sinistra”, quello dei democristiani… come piccoli parlamenti paralleli.
Oggi tutto questo, semplicemente, non c’è più.
Quel tipo di bar — popolare, intergenerazionale, un po’ caotico e molto umano — ha fatto la sua epoca.
È scomparso assieme ad una società che non sa più stare insieme, che preferisce una stanza chiusa ed uno schermo luminoso a una discussione accesa, o ad una partita a carte.
E a me, lo confesso, non sembra un progresso. Per niente.
Perché in quei bar ci siamo formati, ci siamo misurati, ci siamo persi e ritrovati.
Perché lì imparavi a parlare, a discutere, a farti rispettare, a stare con gli altri.
Cose che nessun smartphone potrà mai sostituire.
Umberto Baldo

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