Quando gli assorbenti si compravano di nascosto ed i preservativi si chiamavano goldoni

Dai goldoni ai gender: come siamo passati dal silenzio ai troppi discorsi
di Umberto Baldo
Qualche giorno fa ero con alcuni amici di vecchia data, diciamo pure coetanei, così evitiamo eufemismi.
E’ pensiero comune che fra “pensionati” i ragionamenti girino sempre attorno ad argomenti quali l’assegno pensionistico, la prostata, qualche cantiere nelle vicinanze.
Vi assicuro che non è così, ed infatti ad un certo punto il discorso, partito dalla tragedia dei femminicidi, si è focalizzato sul tema dell’educazione sessuale nelle scuole.
Un tema che da decenni divide l’Italia come il derby Milan–Inter: da una parte i conservatori col rosario in tasca, dall’altra i progressisti col manuale di biologia in mano.
E in mezzo, noi poveri cittadini, che continuiamo a chiederci se davvero servano decreti e circolari per spiegare ai ragazzi da dove vengono i bambini.
A un certo punto, fra una battuta e l’altra , qualcuno ha chiesto: “Ma ai nostri tempi chi si è occupato della nostra educazione sessuale?”
Risposta unanime: nessuno.
E non per cattiveria, ma perché negli anni ’50 e ’60 l’argomento era più tabù della bestemmia in chiesa.
Le donne andavano a comprare gli assorbenti come se stessero acquistando uranio arricchito, sperando che in drogheria non ci fosse nessuno.
E quando un uomo chiedeva al farmacista dei “preservativi”, lo faceva con lo stesso tono di chi domanda una pistola col silenziatore.
Non a caso si chiamavano goldoni, che sembrava quasi un vezzeggiativo artistico: “mi dia due goldoni, grazie, che stasera si va a teatro…”.
Ma allora come facevamo noi ragazzi, e ragazze, ad imparare i misteri del sesso?
Beh, chi viveva in campagna aveva un corso accelerato: bastava guardare la stalla.
Per noi cittadini, invece, l’unica “scuola” era il passaparola: c’era sempre un compagno che sapeva tutto — o credeva di saperlo — e che dispensava lezioni di anatomia basate su voci, sospetti, e leggendarie “sbirciate”.
Il salto di qualità arrivava solo quando qualcuno riusciva a mettere le mani su un giornaletto pornografico.
Quei giornali giravano come reliquie, con la leggenda che “guardandoli troppo” si rischiava di diventare ciechi.
Noi però, nonostante tutto, ci siamo arrivati alla vita adulta.
Abbiamo amato, ci siamo sposati, abbiamo fatto figli.
E nessuno ha dovuto spiegarci le basi — se non altro perché l’istinto, quello sì, non aveva bisogno di circolari ministeriali.
La morale dell’epoca era severa, le ragazze erano molto più prudenti di oggi (con una battutaccia si potrebbe dire che non la davano facilmente), e pensare che la maestra potesse parlare di sesso in classe era pura fantascienza (al riguardo io penso alla mia mamma, maestra di lungo corso).
Altro che gender o consenso informato: ai tempi il Ministero si chiamava semplicemente “della Pubblica Istruzione”, e bastava.
Nessuno si sognava di fare lezioni su peni e vagine, e se a casa avessi provato a chiedere lumi a papà o mamma, ti avrebbero risposto: “Chiedi a scuola”, sapendo benissimo che a scuola non ne avrebbero mai parlato.
Il perfetto scaricabarile all’italiana, già allora.
E così siamo cresciuti col “fai da te”, un metodo artigianale ma tutto sommato efficace.
E vi dirò: forse è stato anche meglio così.
Perché oggi, tra un Ministro che parla di “educazione affettiva” e uno che si preoccupa del “consenso dei genitori”, sembra che parlare di sesso sia diventato più complicato che costruire un reattore nucleare.
Forse alla maggioranza di questi “pedagogisti” sfugge che nelle ore pomeridiane ci sono canali televisivi che trasmettono film in cui gli amplessi si sprecano; e queste pellicole sono accessibili anche ai ragazzini di elementari e medie.
E che qualsiasi film ormai deve necessariamente avere fra i protagonisti gay, lesbiche, famiglie con due genitori dello stesso sesso, situazioni di soggetti con sesso ambiguo, violenza sessuale, e chi più ne ha più ne metta.
Mi viene da chiedere: di cosa stiamo parlando, benedetta gente?
La verità — perdonatemi la schiettezza da pensionato — è che le famiglie vogliono delegare tutto alla scuola, anche ciò che spetterebbe prima di tutto a loro.
Perché chi meglio di una madre od un padre può spiegare ad un figlio o ad una figlia i rischi del sesso irresponsabile, od il valore del rispetto reciproco?
Quale può essere l’ambiente più sereno per impartire ai giovani virgulti i rudimenti di una sana educazione al sesso, se non la famiglia?
Quale professore o professoressa può essere più incisiva e convincente di una madre nel mettere in guardia una ragazzina sui rischi del sesso non protetto?
Io dico nessuna, perché ogni madre, ed ogni padre conosce il suo ragazzo o la sua ragazza, sa come prenderlo, sa quali parole usare. E non certo termini come “farfallina” o simili sciocchezze, quando in televisione si parla a qualsiasi ora di cazzi e fighe, di mestruazioni, di candida, di pruriti intimi, di emorroidi e ragadi ecc.
Insomma, smettiamola di dividerci fra progressisti e tradizionalisti, fra sostenitori delle teorie gender e quelli della famiglia biblica.
Forse, se qualcuno organizzasse dei corsi di educazione sessuale per genitori, faremmo tutti un passo avanti.
Perché, in fondo, il sesso — come la vita — si impara meglio se qualcuno te ne parla con affetto, sincerità ed un pizzico di buon senso.
E che ti spiega con autorevolezza e amore che le donne vanno sempre rispettate, e mai picchiate, violentate o uccise,
Alla fine tocca costatare che noi, che siamo cresciuti senza manuali, di buon senso ne abbiamo imparato parecchio.
Umberto Baldo













