16 Dicembre 2025 - 9.58

Prima le parole, poi i fucili

Gli assassini di Sydney non sono nati assassini.
Prima di trovare i fucili, hanno trovato le parole. 

Le parole dell’antisemitismo contemporaneo: ripetute, rilanciate, giustificate, normalizzate. 

Parole che circolano libere nello spazio pubblico occidentale come se fossero semplici opinioni, come se non avessero già una storia alle spalle. 

Una storia che sappiamo benissimo dove conduce.

No, lo ripeto, gli assassini di Sydney non sono mostri improvvisi, né frutti impazziti di qualche deviazione individuale. 

Sono i frutti dell’odio, e quando l’odio diventa rumore di fondo, prima o poi qualcuno lo traduce in azione.

Nulla a Sydney è accaduto all’improvviso.
Quella strage sulla spiaggia, durante Hanukkah, era annunciata.
Le marce pro-Pal nelle strade australiane, gli attacchi antiebraici sempre più frequenti, la normalizzazione del linguaggio dell’odio e l’accusa di genocidio rivolta a Israele come fosse una constatazione neutra hanno costruito, giorno dopo giorno, il contesto ideale perché qualcuno passasse dalle parole ai proiettili.
Ed è bene dirlo con chiarezza: ciò che è successo in Australia può accadere ovunque. 

In Europa, in Italia. Non siamo immuni, non lo siamo mai stati.

Che le vittime stessero celebrando Hanukkah la festa ebraica della luce, non è un dettaglio. 

È la prova che l’odio antisemita non colpisce individui a caso, ma identità riconoscibili, simboli, riti. 

Perché l’antisemitismo non è un odio tra gli altri: è una malattia politica antica, strutturata, capace di adattarsi ad ogni epoca e ad ogni ideologia, senza mai perdere la propria funzione distruttiva.

Continuare a trattarlo come una variante del rumore social – uno sfogo, una rabbia, un eccesso verbale – significa non aver capito nulla del Novecento. 

O peggio: fingere di non averlo capito.

Non serve scomodare gli slogan più brutali del movimentismo ProPal, né ripescare le dichiarazioni di certi o certe “maitre à penser”.

Quelle sono solo la parte emersa, quello che si vede. 

Il problema vero è il clima: un clima in cui l’antisemitismo è tornato dicibile, frequentabile, talvolta persino moralmente giustificabile.

Né vale rifugiarsi nell’illusione che bastino gesti simbolici a disinnescare l’odio.
L’Australia ha riconosciuto lo Stato palestinese, eppure questo non ha evitato il peggio.
Perché il riconoscimento diplomatico, quando è accompagnato da un discorso pubblico ambiguo od indulgente verso l’antisemitismo, non pacifica: legittima.
Non raffredda gli animi, li scalda. Non separa la critica politica dall’odio identitario, li confonde.

A questo punto la domanda è inevitabile: è un problema di destra o di sinistra?

La risposta più onesta è che è un problema di entrambe, ma soprattutto è un problema della loro attuale irresponsabilità.

La destra osserva soddisfatta l’antisemitismo che riaffiora a sinistra, illudendosi che basti difendere qualsiasi scelta di qualsiasi governo israeliano per cancellare la propria storia e le proprie ambiguità. 

Come se l’antisemitismo potesse essere lavato via per procura geopolitica, senza fare davvero i conti con il proprio passato.

La sinistra, invece, reagisce nel modo peggiore possibile: minimizza, relativizza, distingue. 

Si rifugia nella solita illusione di una superiorità morale automatica, come se essere “progressisti” mettesse al riparo da ogni contaminazione. 

E intanto chiude gli occhi davanti ad un’ostilità che cresce anche fra i propri sostenitori,  e soprattutto nel mondo Pro-Pal, convinta di poter incassare qualche voto in più, quando è del tutto evidente  che i più accesi militanti ProPal piuttosto che votare Pd si farebbero tagliare un piede.

Eppure non è sempre stato così.
Nella storia della sinistra italiana ci sono stati comunisti non accecati dallo stalinismo, uomini che non hanno mai scambiato l’antisemitismo per anticapitalismo, o l’odio per analisi geopolitica. 

Ad esempio Umberto Terracini è stato uno di loro: comunista, antifascista, presidente della Costituente, ma soprattutto uomo libero, capace di difendere Israele quando farlo significava andare contro il proprio Partito, contro lo stalinismo imperante, e contro il conformismo ideologico.

Accanto a lui, su versanti diversi ma con la stessa lucidità, ci sono stati i liberal-democratici come Ugo La Malfa, che vedevano in Israele una democrazia da difendere, non un’astrazione ideologica da sacrificare. 

Ed i radicali libertari come Marco Pannella, che difendevano Israele per istinto morale, per allergia ad ogni fanatismo, per fedeltà alla libertà delle minoranze.

Tre mondi diversi. Tre storie politiche inconciliabili.
Eppure uniti da una cosa sola: la capacità di riconoscere l’antisemitismo quando si presentava, senza alibi e senza infingimenti.

Oggi quella tradizione è stata rimossa.
Ed al suo posto è rimasto un vuoto, riempito da parole irresponsabili, slogan facili, silenzi colpevoli.

Per questo servirebbe, anche in Italia, una campagna politica e culturale esplicita, dura, impopolare se necessario. A partire dalle scuole ovviamente.

Non una difesa acritica di Israele, e tanto meno delle derive autoritarie di Netanyahu, ma una linea invalicabile: l’antisemitismo non è una opinione, non è una sensibilità, non è una posizione politica. 

È una minaccia alle democrazie.

Perché la storia lo insegna con una regolarità impressionante: prima tornano le parole, poi tornano i fucili.

E a Sydney lo abbiamo visto di nuovo.

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