Oro alla Patria. Lingotti, nostalgie e manovre: il ritorno del metallo miracoloso

Umberto Baldo
In Parlamento sembra riesplosa la passione per l’oro.
Non quello degli anelli, né quello dei Rolex taroccati sequestrati a qualche turista a Jesolo: parliamo dell’oro custodito nei caveaux di Bankitalia, roba seria, lingotti veri, non le collanine placcate argento vendute nei negozietti di souvenirs.
Qualcuno nel Governo deve aver deciso che dentro la manovra andava infilato un emendamento per chiarire — udite udite — che l’oro appartiene al popolo italiano (“Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del Popolo Italiano”).
Una rivelazione paragonabile a scoprire che l’acqua bagna, o che a Ferragosto fa caldo.
La proprietà dell’oro non è mai stata in dubbio, nessuno l’aveva contestata, e la BCE non aveva fisso il telefono in mano pronta a chiamare Roma: “Pronto, siamo venuti a prenderci i lingotti”.
Niente di tutto ciò. Ma la politica italiana è fatta così: quando non si sa bene cosa mettere nella finanziaria, ecco che rispunta l’oro.
È il jolly, l’asso di briscola.
Fa scena, scalda i cuori e fa scattare un titolone sul giornale.
E qui arriva la parte più gustosa.
Perché a parlare di “oro del popolo italiano” — oggi — è proprio quel partito che discende, almeno spiritualmente, da una tradizione politica che negli anni ’30 aveva inventato una delle campagne più bizzarre della storia: “l’oro alla Patria”.
Era il 1935: l’Italia si preparava all’avventura coloniale in Etiopia e Mussolini, sempre bravissimo in propaganda, invitò gli italiani a consegnare allo Stato l’oro “per il bene supremo della Nazione”.
Risultato? Milioni di donne — spesso mamme di famiglia, spesso depositarie dell’unico vero patrimonio domestico — si sfilarono l’anello nuziale dal dito e lo consegnarono allo Stato in cambio di una fede di acciaio.
Oro contro ferro, simbolismo allo stato puro.
Ora, non siamo certo a quel livello.
Nessuno ha chiesto alle italiane di ripetere l’operazione.
Ma l’assonanza è irresistibile: prima “l’oro alla Patria”, oggi “l’oro è del Popolo”.
Cambiano i tempi, cambiano i governi, ma l’oro resta sempre un irresistibile magnete politico.
Sarà che, quando le idee scarseggiano, il metallo giallo torna a brillare come unico orizzonte.
Ma allora perché questo emendamento?
Mi vengono in mente tre ipotesi, più o meno cattivelle:
Effetto scenico.
Dire che l’oro è del popolo costa zero e rende tantissimo in termini di immaginario romantico-nazionalista. Il metallo luccica, e in politica il luccichio vale più di mille analisi tecniche.
Sovranismo da salotto.
Ribadire che nessuno può toccare l’oro è un modo per dire all’Europa: “Occhio, le nostre cose ce le gestiamo noi”. È la versione istituzionale del “non toccare la mia roba”.
Evocazione del tesoretto.
Ogni tanto a qualcuno viene l’idea di usare l’oro per il debito, per le emergenze, per i miracoli economici. Poi gli economisti spiegano che non si può, che non si deve, che sarebbe una follia. Ma intanto il pubblico applaude.
La verità?
Ogni tanto la politica riscopre l’esistenza dell’oro custodito nei caveaux di Bankitalia, come se fosse un tesoro dei pirati dimenticato da decenni.
In realtà parliamo di una montagna d’oro — circa 2.450 tonnellate — che l’Italia ha accumulato nell’arco di più di un secolo, e che oggi vale decine e decine di miliardi.
Non un “bottino” da usare per fare bonus e mancette (questo il vero rischio con questa classe politica di scappati di casa), ma una riserva di sicurezza, una specie di airbag economico che serve a garantire la stabilità della moneta e la credibilità finanziaria del Paese.
È un po’ come avere una cassaforte piena d’oro che nessuno vuole aprire: non perché non faccia gola, ma perché serve proprio a non toccarla.
Per di più, da quando siamo entrati nell’erea euro, Bankitalia non è più “la Banca della lira”, ma fa parte del sistema delle Banche Centrali Europee.
Una piccola quota dell’oro italiano è addirittura stata conferita alla BCE.
Ciò non significa che l’Europa possa vendere il nostro oro o usarlo a piacimento, ma semplicemente che la gestione della stabilità monetaria è coordinata a livello europeo, e le riserve — anche se restano italiane — sono parte di un quadro più grande.
Se volete il mio parere, per quanto conti, può essere che l’emendamento Malan venga anche approvato, ma alla fine l’oro continuerà a resterà dove sta: nei caveau, silenzioso, immobile, a fare da garanzia a un Paese che ne ha sempre bisogno.
E la politica continuerà ad evocarlo a ogni manovra, un po’ perché fa folklore, un po’ perché aiuta a distrarre l’attenzione da tutto il resto.
D’altra parte, se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla storia è che in Italia — da Mussolini ai giorni nostri — l’oro è sempre più facile agitarlo che usarlo.
E forse è meglio così: il giorno in cui dovessimo davvero metterci mano, altro che “popolo italiano”… servirebbero gli stessi Santi invocati dalle mamme che nel ’35 si sfilarono la fede per la Patria.
In conclusione il dibattito sull’oro della Banca d’Italia non è solo una questione contabile o di diritto societario: è al crocevia di gestione monetaria, sovranità, politica economica, debito pubblico e identità nazionale.
Da una parte c’è un patrimonio reale, consistente, che ha accompagnato l’Italia nella storia, con un valore che oggi gioca a favore (se il prezzo dell’oro sale), e che rappresenta un “fondo di stabilità”.
Dall’altra c’è la necessità, per molti politici, di dare a quell’oro un valore concreto per il Paese: non solo come garanzia, ma come risorsa “del popolo”.
Ma trasformarlo in “bene pubblico” spendibile non è banale: rischia di creare tensioni con le regole europee, di compromettere la funzione della Banca centrale, ma soprattutto di dare ai mercati ed agli operatori l’impressione di uno Stato fallito, costretto a vendere i beni di famiglia.
Non proprio un’immagine da evocare.
Umberto Baldo













