26 Settembre 2025 - 9.43

Mentre guardiamo a Gaza, Putin bussa ai nostri confini

Umberto Baldo

Chi come me ha vissuto gli anni della guerra in Indocina, e l’ondata di contestazioni che da Berkeley e Harvard arrivò fino a Parigi e Roma (mentre a Mosca e a Varsavia le piazze erano state messe in naftalina dai regimi), non può non vedere le somiglianze con le mobilitazioni di oggi. 

Allora erano cortei, occupazioni, slogan; oggi lo stesso copione, con Gaza al posto del Vietnam. 

Il contesto geopolitico è cambiato, i protagonisti pure. 

Ma resta un filo rosso: la guerra. 

Ieri lo slogan era “Fuori gli Usa dal Vietnam”, oggi è “Palestina libera”. 

Ieri sventolavano le bandiere rosse del Nord Vietnam, oggi quelle verdi, nere e bianche della Palestina. 

Come accennato, la scenografia è simile: cortei colorati, cori che rimbalzano nelle piazze, parole d’ordine allora scippate al maggio francese: “Ce n’est qu’un début, continuons le combat!”, oggi “Palestina dal fiume al mare”. 

Si può discutere all’infinito del perché in questo momento tutto sembra ruotare intorno a Gaza. 

Ma a ben guardare serve a poco, perché quello che conta è la realtà; e resta il fatto che francamente mai avrei pensato di vedere la bandiera di uno Stato che non esiste, perché non risponde alle caratteristiche previste dal Diritto Internazionale (territorio delimitato, una popolazione permanente, un governo effettivo e la capacità di intrattenere relazioni internazionali) diventare un simbolo esposto sui balconi anche dei nostri Palazzi Istituzionali.

È un paradosso che la dice lunga su come la politica, soprattutto a gauche, preferisca cavalcare i simboli piuttosto che guardare in faccia la realtà.

Badate ben che non è che non capisca le ragioni di queste mobilitazioni, e sono fra quelli che pensano che Benjamin Netanyahu stia disperdendo i valori fondativi di Israele, quelli dei Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, trasformandolo da “unica democrazia del Medio Oriente” a Stato canaglia. 

Ma il punto non è solo questo. 

Il punto è che oggi “tutto inizia e finisce a Gaza”, mentre l’Europa rischia di non vedere il fuoco che cova sotto casa.

Prendiamo il bilaterale di Ferragosto ad Anchorage tra Trump e Putin: un tappeto rosso steso per nulla, se non per certificare che le spacconate di Trump (“fàso tuto mi”) di chiudere la guerra in pochi giorni erano aria fritta. 

Risultato: Putin è uscito dall’incontro più baldanzoso di prima.

Poi c’è stata la passerella di Pechino, con parata nucleare e proclami di compattezza del fronte anti-occidentale: altro che distensione, era un messaggio minaccioso a cielo aperto. 

Intanto Putin prosegue la sua strategia: esercitazione Zapad 2025 con la Bielorussia, 13 mila uomini e missili ipersonici Oreshnik piazzati a Kaliningrad e Minsk. 

Parallelamente, incursioni aeree e droni senza transponder nello spazio aereo Nato: Polonia, Romania, Lituania, Estonia, Lettonia, Norvegia, Danimarca… ieri persino vicino all’Alaska.

Due interpretazioni. 

La prima, edulcorata: le solite provocazioni russe, come il continuo jamming dei satelliti sul Baltico. 

La seconda, più verosimile: Mosca sta testando l’Europa. 

Vuole capire se l’Ue e la Nato sono in grado di reagire, o se continueranno a partorire comunicati altisonanti. 

Tradotto: l’Ucraina è solo una tappa intermedia dell’espansionismo russo.

E mentre l’Europa cincischia, il Cremlino da anni lavora per infiltrare i Partiti populisti e spaccare l’unità europea, contando sullo scandaloso disimpegno di Trump: mai Washington era stata così ostile a Nato, Onu, Ue.

Fino ad ora il comportamento dell’Europa è sembrato molto tentennante. 

Pensiamo invece a 10 anni fa, quando la Russia  partendo dalla Siria faceva incursioni aeree sul territorio turco; la Turchia ha protestato e al quarto episodio ha abbattuto un caccia russo;  da allora le incursioni sono terminate.

Oggi, invece, sembra prevalere la politica del “vediamo e speriamo”.

La verità a mio avviso è che Putin si comporta da bullo, e i bulli capiscono solo la forza.

Ma qui sta il punto. 

Il rischio che qualche singolo Paese, o la stessa Nato, decidano di rispondere agli sconfinamenti abbattendo i droni o peggio gli aerei responsabili (chiamatelo se volete “rischio Sarajevo”). 

Perché in tale ipotesi l’escalation sarebbe inevitabile, con tutto ciò che ne consegue in tema di rischio di un conflitto vero e proprio.

E a quel punto non parleremo più di simboli o cortei, ma di guerra vera.

L’Occidente, in particolare l’Europa, nell’immediato futuro dovrà impegnarsi, per non rischiare di essere dominato da potenze autocratiche. 

La verità è che nonostante le buone intenzioni dei nostri “pacifisti da marce”, stiamo tornando ad una condizione più “normale” per la storia europea: vivere in uno stato di insicurezza permanente, come è sempre  accaduto nei secoli passati.

Ecco perché, pur comprendendo le ansie per la Flotilla in navigazione per Gaza, non possiamo permetterci di guardare solo a Sud. 

Perché il vero rischio, per noi europei, arriva da Est. 

E non è uno slogan.

Umberto Baldo

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