L’Iran con i missili, ma senz’acqua

Umberto Baldo
Se vi mettessero davanti a un bivio secco: preferisci che il tuo Paese faccia il Rambo del Golfo Persico o poter bere, cucinare e lavarti? – probabilmente pensereste ad una domanda da barzelletta.
E invece no: per l’Iran degli Ayatollah oggi questa non è fantascienza, ma il “problema dei problemi”.
Non è la prima volta che l’ideologia si rivela poco compatibile con i bisogni elementari di chi vive in un Paese gestito da una dittatura.
È già successo altrove: Maduro ad esempio regna su un Paese che galleggia su un mare di petrolio, ma i venezuelani devono attraversare la frontiera per fare rifornimento di benzina.
E ora tocca a Teheran: circondata dal mare dappertutto – Golfo Persico, Mar dell’Oman, Mar Caspio – incapace però di garantire l’acqua potabile ai propri cittadini.
Il punto, infatti, è proprio l’ideologia.
Come ricordava nei giorni scorsi il Wall Street Journal, nel 1962 lo Scià, che voleva modernizzare il Paese, invece di creare milizie religiose, si rivolse a Israele perché lo aiutasse a sviluppare una rete idrica moderna.
Gli israeliani, che abitano in un’area altrettanto arida dell’Iran, ma che sono riusciti a sviluppare metodi e tecnologie per consentire sia agli agricoltori che agli abitanti delle città di avere tutta l’acqua di cui hanno bisogno, riuscirono a mettere in piedi anche in Persia una rete idrica efficiente.
Tutto finì nel 1979, quando con la rivoluzione Komeinista Israele divenne il nemico numero uno, la gestione dell’acqua passò alle Guardie della Rivoluzione Islamica, e fra corruzione ed inefficienze iniziò il progressivo degrado che ha portato alla situazione di oggi.
Il risultato è quello che vediamo.
Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha lanciato l’allarme in modo brutalmente chiaro: “Se entro fine novembre non piove, a Teheran, dovremo razionare. E se continua così, dovremo evacuare la capitale”.
Non un dettaglio: Teheran non aveva mai affrontato una crisi idrica simile negli ultimi quarantasei anni.
È vero, le piogge sono diminuite drasticamente: nel 2025 – dati del servizio meteorologico nazionale – sono calate del 90% rispetto alla media, e l’autunno è stato “il più secco degli ultimi cinquant’anni”.
Ma non si può dare tutta la colpa al cielo.
La gestione delle risorse è stata disastrosa: pozzi trivellati senza criterio, deforestazioni, appalti dati per arricchire amici e parenti, impianti elettrici che salinizzano il terreno e abbassano la falda, fabbriche inutili messe lì più per ideologia che per utilità.
Gli attacchi israeliani hanno colpito alcune strutture strategiche, certo, ma il problema è strutturale e risale a decenni di errori.
Basta un numero per capire tutto: l’Iran ha costruito 192 dighe, dieci volte più di quarant’anni fa.
Un Paese arido che riempie serbatoi da cui l’acqua evapora rapidamente: una politica di gestione idrica che si commenta da sola.
Sul fronte demografico la situazione è stata aggravata dall’ossessione della Guida Suprema per una crescita stile baby boom: dai 37 milioni del 1979 agli oltre 80 del 2016, con il sogno – mai spiegato – di arrivare a 150 milioni.
D’altronde i “milioni di baionette” sono una fissa di tutte le dittature, laiche o religiose non fa differenza.
Peccato che nessuno abbia pensato a come dare da bere, e da mangiare, a tutte queste persone (ad oggi siamo a 95,2 milioni).
E ora? Che fa il regime davanti ad una crisi che può far esplodere il malcontento?
Inizia con l’inseminazione delle nuvole (sì, proprio così), prega nelle moschee e, come unica misura reale, introduce razionamenti.
Il direttore dell’azienda idrica di Teheran ha già avvertito che la capitale rischia a breve di restare letteralmente all’asciutto.
E quando si tocca questo punto, riemerge ciclicamente la vecchia idea: spostare la capitale nella regione del Makran, nel Belucistan, una zona spopolata affacciata sul Mar Arabico.
Piccolo dettaglio: Teheran ha 12 milioni di abitanti. Spostare una città così non è un trasloco, è fantascienza.
Senza contare che l’Iran non ha i soldi nemmeno per sistemare l’acquedotto, figuriamoci per rifare una capitale.
Intanto, attorno, tutti gli altri Paesi del Golfo hanno risolto il problema grazie all’attivazione di una adeguata rete di impianti di desalinizzazione.
Il Kuwait produce con la desalinizzazione il 93% dell’acqua che consuma.
Gli Emirati hanno settanta impianti che coprono il 42% del fabbisogno.
L’Arabia Saudita è il primo produttore mondiale di acqua desalinizzata, e grazie a 30 “super impianti” ne ricava più della metà del proprio fabbisogno.
E l’Iran? Nonostante migliaia di chilometri di coste, arriva appena al 3%.
Senza dimenticare che quando manca l’acqua, manca anche l’elettricità: negozi che chiudono, fabbriche paralizzate, licenziamenti, famiglie costrette a tornare alle taniche ed ai secchi come negli anni Cinquanta.
Molti analisti avevano ipotizzato che la mini-guerra con Israele potesse far saltare il tappo del malcontento.
Non è successo: l’opposizione è debole, la repressione feroce.
Ma le crisi non restano congelate per sempre.
E se c’è una cosa che potrebbe davvero spingere il popolo iraniano al limite è proprio questa: l’idea che, mentre si spendeva per nucleare, droni, milizie sciite ed avventure imperiali in mezzo Medio Oriente, si lasciava il Paese letteralmente senza acqua.
E quando manca l’acqua, anche i regimi più duri e sanguinari possono scoprire che la sete è più forte dell’ideologia.
Umberto Baldo













