13 Ottobre 2025 - 11.35

Le madri d’Israele e di Gaza: il dolore che unisce più della politica

Umberto Baldo

Comunque la si legga — a meno che non si sia portato il cervello all’ammasso a colpi di slogan tipo “Palestina dal fiume al mare” — quello che stiamo vivendo in queste ore è un fatto che gli storici del futuro ricorderanno nei loro scritti.
Vedere la commozione di quella piazza di Tel Aviv ribattezzata “Piazza degli ostaggi”, con i cori, gli abbracci, gli occhi lucidi dei familiari dei rapiti durante il pogrom del 7 ottobre, è un’immagine che tutti speravamo di vedere ma che, fino a pochi giorni fa, sembrava semplicemente impossibile.
Parallelamente, vedere i palestinesi — donne, uomini, vecchi e bambini — tornare nei luoghi dove abitavano e dove oggi non restano che macerie, stringe il cuore. Eppure, una foto che li ritrae mentre allestiscono una specie di mercatino tra le rovine mi ha colpito più di tante altre: perché dimostra che, qualunque sia la disperazione, “c’è sempre un domani”.
Chi conosce la storia sa che sono le scene della fine di ogni conflitto, forse la più difficile da gestire.
Troppi gli odi, troppi i morti, troppe le distruzioni e troppi gli anni — oltre settanta — di lotta all’ultimo sangue tra israeliani e palestinesi, perché si possa anche solo immaginare che, come per magia, la gente dimentichi e si passi al “volemose bene”.
Reazioni violente, vendette, regolamenti di conti da parte degli irriducibili o di chi, a Gaza, comandava con il terrore e con i soldi, vanno messe in conto.
Delle reazioni a caldo della nostra politica italica all’annuncio della tregua ho già parlato (https://www.tviweb.it/dal-medio-oriente-al-bar-sport-cronache-del-nostro-provincialismo/), e non mi resta che rimandarvi a quell’analisi.
Ma poiché la logica della guerra impone sempre di stabilire chi ha vinto e chi ha perso — anche quando è evidente che, tra morti e macerie, a perdere sono tutti — voglio provare a giocare anch’io a questo “gioco”.
Tralascio, quindi, le ovvietà di chi dice che questa non è una pace, ma solo una tregua; che è una pace imperfetta, figlia di un accordo affrettato, destinato a durare poco.
Nessuna pace è eterna, e solo “Donald faso tùto mi” poteva usare quel termine con leggerezza.
Come pure lascio perdere chi vuole far credere — forse illudendosi — che le “Flotille della pace” o le marce arcobaleno abbiano spinto le cancellerie mondiali verso l’accordo.
La politica internazionale non risponde alle emozioni, ma a logiche spesso imperscrutabili.
In questa vicenda, al di là del fatto che Trump appare come il vincitore della partita, o quantomeno colui che continua a distribuire le carte, credo che il vero elemento determinante sia stato il nuovo approccio dei Paesi arabi.
Ricordate quante volte in questi due anni ho scritto che Bibi Netanyahu stava facendo il lavoro sporco per tutti, compresi i Paesi arabi?
Forse qualcuno mi avrà preso per pazzo.
Ma pensateci: Netanyahu ha disarticolato con le armi Hezbollah, l’alleato libanese dell’Iran; ha contribuito, anche se in modo meno visibile, alla caduta del regime di Bashshār al-Assad in Siria, anch’esso legato agli ayatollah; ha svelato il bluff dell’Iran attaccandolo sul suo territorio e colpendo i siti nucleari; ha contenuto gli attacchi degli Houthi.
Per chiudere il cerchio mancava Hamas, che con il massacro del 7 ottobre non ha capito quale rischio mortale correva sfidando Israele.
Ridimensionato l’Iran — che non ha mai nascosto l’ambizione di diventare la potenza egemone del Medio Oriente — i Paesi arabi e musulmani, dal Qatar all’Egitto, dall’Arabia Saudita alla Turchia, fino al Pakistan, si sono uniti nell’impegno corale per la riuscita del piano Trump.
E non è affatto irrilevante che la cerimonia della firma degli accordi di pace non si terrà come di consueto a Ginevra o a Oslo, ma all’International Conference Center di Sharm el Sheikh, nel Sinai egiziano — la terra che nel 1956 fu campo di battaglia nella Guerra del Sinai.
La firma in territorio arabo, musulmano, ha in sé un valore simbolico enorme: per la prima volta, i Paesi della regione sembrano credere davvero che una pace stabile sia possibile.
Chi oggi critica questo tentativo — magari solo per odio viscerale verso Trump, e senza offrire alternative credibili — è, mi dispiace dirlo, solo un pacifista da marcia o da scrivania.
Perché in certi momenti bisogna guardare avanti, superando le miserie della politica dell’oggi.
E allora sì, oggi è giusto commuoversi davanti a una madre israeliana che abbraccia un figlio liberato dopo due anni di prigionia, o che accoglie la sua salma.
Come è giusto commuoversi davanti alle madri palestinesi che i figli li hanno visti morire sotto le bombe.
Perché il dolore, almeno quello, non ha confini.
Umberto Baldo

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