22 Ottobre 2025 - 12.22

La valanga di fake di una rete che premia la rabbia, l’indignazione, l’urgenza: e voi? ci siete dentro?

di Alessandro Cammarano 

Internet, lo diceva già il saggio di una volta con la fibra lenta, è come il mare: meraviglioso da lontano, ma appena ci entri ti accorgi che galleggiano cose poco raccomandabili.

Un tempo era il regno della conoscenza, oggi è un grande luna park dell’apparenza, dove ogni bugia ha un filtro migliore della verità. Gli utenti litigano con i bot, i bot si fingono utenti, e l’intelligenza artificiale — che doveva salvarci dalla stupidità — ha deciso di impararla per imitazione.

A studiare i report si scopre che meno della metà del traffico mondiale è umano. 

Il resto lo fanno i bot: milioni di piccoli automi che cliccano, condividono, applaudono o insultano secondo copione; non dormono mai, non pensano mai e, soprattutto, non si offendono mai: qualità rara, oggi. Su Twitter (o come preferite chiamarlo nella sua reincarnazione muskiana), una minima percentuale di profili usa volti creati con l’intelligenza artificiale. Pochi? Sì, ma sufficienti a sembrare un popolo intero. 

Così nascono le “tendenze”: sciami digitali che applaudono all’unisono ciò che nessuno ha detto.

Poi ci sono i profili dormienti, gli zombie della rete: dormono per anni, poi si risvegliano giusto in tempo per una polemica politica, un referendum, una guerra o un festival di Sanremo. 

“Utenti storici”, dicono le biografie: peccato che l’ultimo post prima del risveglio risalga all’era di Napster. Non sempre sono robot: spesso sono persone vere, ma telecomandate. Il loro scopo è semplice e nobile: fingere che esista un dibattito.

Nel frattempo, le fake news si sono laureate. Hanno smesso di fare errori grammaticali e hanno assunto copywriter. Secondo NewsGuard, nel 2025 i principali chatbot di intelligenza artificiale diffondono informazioni false o non verificate nel 35% dei casi. L’anno scorso erano il 18%: la menzogna, dunque, cresce più del PIL. 

In testa alla classifica dell’invenzione credibile troviamo Inflection Pi (56%), Perplexity AI (46%) e Meta AI (40%). Ma almeno scrivono bene: la macchina mente, sì, ma con punteggiatura impeccabile e congiuntivi in regola — un miglioramento notevole rispetto a molti utenti reali.

Il problema non è più la bufala, ma la verosimiglianza: le foto, i video, le voci generate artificialmente sono così ben fatte che persino la realtà comincia a sentirsi in difetto. Uno studio pubblicato su arXiv mostra che la maggior parte dei partecipanti non distingue più un’immagine vera da una finta. L’85% degli americani crede più a ciò che vede online. Un successo: la verità, dopo secoli di predominio, è finalmente in minoranza.

La rete, intanto, premia la rabbia, l’indignazione, l’urgenza: le tre emozioni più profittevoli. 

Gli algoritmi non chiedono “è vero?”, ma “divide abbastanza?”. Se sì, lo promuovono. E noi — sempre connessi, mai collegati — ci sentiamo parte di una conversazione globale che in realtà è una gigantesca eco. 

Le piattaforme digitali non amplificano la voce del popolo: amplificano il rumore di fondo.

Qualche rimedio? Pochi, ma vale provarci. 

Controllate le fonti, leggete le date, non fidatevi di profili che si risvegliano come la mummia di Tutankhamon. 

Diffidate delle immagini perfette, delle emozioni calibrate, dei titoli che “nessuno vi dirà”. E ricordate: l’intelligenza artificiale sbaglia nel 35% dei casi, ma lo fa con una sicurezza che voi non avete neppure quando ordinate un caffè.

Il vero rischio non è la menzogna, ma la sua eleganza. Le falsità non sono più grezze, ma rifinite, lucidate come una carrozzeria tedesca. Quando il falso diventa più verosimile del vero, la verità non muore: semplicemente, perde il vantaggio competitivo. In un mondo dove anche la bugia ha un buon ufficio stampa, la differenza la fa chi dubita. E dubitare, oggi, è un atto rivoluzionario.

La rete è piena di “intelligenza”, ma scarseggia di umanità. Forse è questo il problema: la macchina impara da noi, e noi, da lei, impariamo a fingere meglio. L’illusione è completa: tutti informati, nessuno informato davvero.

Ma tranquilli: l’importante, sui social, non è avere ragione. È avere connessione.

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