Insegnanti in pensione a 60 anni? E gli altri sono i figli della serva?

Umberto Baldo
Sono anni che si discute della sostenibilità dei sistemi pensionistici.
Uso il plurale perché il problema non è solo italiano: in Francia l’età pensionabile è ancora a 62 anni, ed i tentativi di alzarla hanno fatto cadere i Governi; in Inghilterra la situazione non è migliore.
Ovunque i conti scricchiolano e la demografia – quella delle culle vuote – peggiora tutto.
In Italia la famosa riforma Fornero del 2011, nonostante quello che pensa Matteo Salvini, ha messo un argine, ma il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati continua a deteriorarsi.
Il Ministro dell’Economia Giorgetti lo sa bena che nei sistemi a ripartizione, meno giovani significa più spesa pubblica per le pensioni.
Il problema è noto, ma la politica lo affronta sempre con i guanti: i pensionati sono la constituency elettorale più vasta, e nessuno vuole inimicarsela.
Anche quest’anno, in vista della prossima legge di bilancio, si torna a discutere se sterilizzare o meno l’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita: il blocco costa miliardi.
Eppure, proprio in questo contesto in cui la politica litiga su come frenare la spesa, ho letto con un certo sconcerto che a Palazzo Madama riprende l’iter della proposta di legge n. 1413, firmata dalla senatrice Carmela Bucalo (Fratelli d’Italia), nella cui presentazione al Senato si legge testualmente: “…Il presente disegno di legge vuole riconoscere la dignità e la peculiarità del lavoro svolto dal nostro personale nelle istituzioni scolastiche, nelle università, nelle accademie, nei conservatori e negli enti di ricerca, valorizzando gli anni della formazione universitaria con un riscatto agevolato…”.
Detta in altre parole la proposta consiste nel favorire il pensionamento anticipato del personale docente e Ata della scuola.
Come?
Appunto con il riscatto agevolato degli anni di laurea, e l’uscita a 60 anni.
In tal modo si favorirebbe il “ricambio generazionale di massa” per “garantire una formazione adeguata e di elevata qualità alle future generazioni”: l’ipotesi sarebbe per una riduzione dell’aliquota al 5%, abbassando così l’onere a poco di 900 euro per ogni anno di corso universitario, anziché i 6.076 attuali.
Un bel regalo, se pensiamo che i potenziali beneficiari sono circa 1,2 milioni di dipendenti del comparto istruzione e ricerca.
Ho letto che la proposta, sostenuta dal sindacato Anief, è finalizzata anche a combattere il burnout del corpo insegnante.
Fin qui due osservazioni.
In primisil burnout.
Non metto in dubbio che fare l’insegnante oggi non sia semplice: l’autorità del docente è evaporata, i genitori sono sempre più invadenti, e la scuola non gode più del prestigio di un tempo.
Ma, detto francamente, non credo che la sindrome da logoramento sia esclusiva di chi entra in classe.
Provate a chiedere a chi in questi tempi stende asfalto sulle strade a luglio, o lavora sui tetti ad agosto, se si sente immune dal burnout, e poi vediamo chi ha più diritto a piagnucolare.
E a dirla tutta non ho ancora trovato un lavoratore che il sabato o la domenica si sciolga in lacrime perché “oggi non si lavora”.
Il secondo punto è l’equità.
Perché ridurre drasticamente il costo del riscatto di laurea solo a insegnanti e Ata?
E i lavoratori del privato?
Sono “figli della serva”?
Dovrebbero pagare con i loro contributi e le loro tasse pensioni anticipate a chi, oltretutto, lavora nel pubblico?
Per non dire che, a mio avviso, qualcosa da dire al riguardo l’avrebbero anche i lavoratori pubblici che non lavorano nel settore scuola.
Il rischio di sperequazioni, io oserei dire al limite dalla costituzionalità, qui è palese.
E non parliamo dell’impatto sui conti pubblici: se più di un milione di insegnanti decidesse di approfittarne, il buco non sarà un burnout, sarà un crollo strutturale del sistema pensionistico.
E qui nasce a mio avviso la domanda vera: perché la senatrice Bucalo – o meglio la Premier Giorgia Meloni – non escono in tv o sui social a spiegare chiaramente questa proposta?
Forse perché sanno che la parola “privilegio” non piace, e che gli italiani non gradirebbero molto l’idea di pagare le pensioni anticipate degli insegnanti mentre si spaccano la schiena fino a 67 anni (in crescita).
Ma siamo in campagna elettorale permanente: i voti contano più dei conti, e il burnout diventa improvvisamente un problema nazionale… almeno fino a quando c’è qualcuno disposto a votare la soluzione magica.
Io sarò pure all’antica, ma continuo a pensare che in un Paese serio il principio di equità dovrebbe valere più di un titolo di giornale, e che la politica dovrebbe distribuire giustizia, non favori di categoria.
Ma forse sono io che sbaglio: in Italia “equità” ed “uguaglianza” sono finite da tempo in pensione.
Umberto Baldo













