28 Ottobre 2025 - 10.18

Il fascismo che non passa

Umberto Eco lo spiegò con una lucidità che, oggi più che mai, dovremmo tornare a leggere: il fascismo è esistito prima della dittatura fascista, ed ha continuato ad esistere dopo il 25 aprile 1945.
Non nella stessa forma, non con gli stessi simboli o divise, ma nelle sue radici più profonde — culturali, psicologiche, comunicative.

E aveva ragione. 

Perché al di là del Ventennio, nel linguaggio politico contemporaneo il termine” fascismo” è diventato una sorta di concetto universale: sinonimo di reazione, conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo, corporativismo, perfino razzismo e imperialismo.
Ma ridurre il fascismo a un’etichetta polemica è un errore: il fascismo, prima ancora che un regime, è un metodo, è un atteggiamento mentale.

Due ne sono a mio avviso  i tratti essenziali: il dogmatismo, cioè la convinzione che esista una sola verità – la nostra – e che tutto il resto sia devianza da reprimere; e la demonizzazione dell’avversario, trasformato non in interlocutore ma in nemico, da ridicolizzare, zittire o annientare.
Capite bene che, con queste coordinate, il fascismo non è solo una questione di destra, perché può allignare anche fra chi pensa di essere  di sinistra. 

È una tentazione che può attecchire ovunque, anche nei cortili universitari.

Ed eccoci a Venezia.
All’università Ca’ Foscari, lunedì scorso, un gruppo di militanti del Fronte della Gioventù Comunista e alcuni collettivi universitari hanno interrotto l’intervento dell’ex deputato del PD Emanuele Fiano, invitato dall’associazione Futura per parlare del futuro del Medio Oriente.
L’incontro era già stato spostato di sede per timore di disordini.

Ma i contestatori hanno scoperto il nuovo indirizzo, si sono presentati e, tra cori e striscioni (“Fuori i sionisti dall’università”), hanno impedito lo svolgimento del dibattito.

“Non ci interessa quello che hai da dire, noi non vogliamo che tu parli” — è stato, in sostanza, il messaggio urlato a Fiano.
E qui torniamo a Eco: negare la parola a chi non la pensa come noi è il gesto fascista per eccellenza.

Comprensibile, allora, lo sconcerto di Emanuele Fiano, che a caldo ha detto: “Sono scioccato. L’ultima volta che hanno espulso un Fiano da un luogo di studio è stato nel ’38, con mio padre. Noi eravamo lì a parlare di pace, di dolore, di violenza. Chi non vuol sentire parlare di queste cose, la pace non la vuole”.

Parole che pesano come pietre.
Perché Fiano non è solo un politico — quattro volte deputato con l’Ulivo e il PD — ma il figlio di Nedo Fiano (1925-2020), ebreo deportato ad Auschwitz ed unico sopravvissuto della propria famiglia.
Emanuele Fiano ha portato avanti la sua testimonianza con dignità e misura: è stato presidente della Comunità ebraica di Milano, ha diretto il Museo della Permanente, oggi guida il Comitato scientifico del Memoriale di Fossoli.
Ha scritto libri profondi come “Il profumo di mio padre”“Ebreo” e “Sempre con me”.
Chiunque lo abbia ascoltato in televisione conosce il suo tono pacato, la sua capacità di distinguere, la sua difesa del diritto d’Israele ad esistere — mai confuso però con le posizioni più estreme del governo Netanyahu e delle destre religiose israeliane.

E allora no, non si può liquidare ciò che è accaduto come una semplice “contestazione studentesca”.
Quando si impedisce ad un uomo di parlare solo perché ebreo, quando si urla “fuori i sionisti” in un’aula universitaria, o si mimano con la mano i gesti della P38 — come ha raccontato lo stesso Fiano — siamo di fronte a qualcosa che va ben oltre il dissenso politico.
Siamo davanti a un rigurgito antisemita, travestito da solidarietà, mascherato da militanza.

Certo, la solidarietà a Fiano è arrivata, da più parti politiche, ed è doverosa.
Ma non basta.
Perché il punto non è solo condannare l’episodio, ma riconoscere la malattia di fondo: quella tendenza illiberale a negare la parola, a pensare che solo chi grida più forte abbia ragione.
È quella stessa pulsione che Umberto Eco, con il suo genio, chiamava Ur-Fascismo: il fascismo eterno, che non indossa più la camicia nera ma continua a insinuarsi nelle nostre coscienze, a destra come a sinistra.

Ed è questa la vera lezione di Venezia: il fascismo non è mai morto.
Semplicemente cambia colore, slogan e bandiere.
Ma resta sempre, in fondo, la paura della libertà dell’altro.

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