23 Ottobre 2025 - 9.39

Gaza – Gridavano “dal fiume al mare”, adesso tutti muti davanti alle stragi interne

Lawrence d’Arabia

Non serviva interpellare l’oracolo di Delfi per profetizzare che, con il cessate il fuoco a Gaza, le piazze Pro-Pal si sarebbero spente all’istante, come candele bagnate da una secchiata d’acqua.
Eppure, nella Striscia si continua a sparare. Solo che ora a farlo non sono gli israeliani, ma i gentiluomini di Hamas contro i loro “fratelli palestinesi”.

Un dettaglio, questo, che sembra non turbare le coscienze della sinistra europea, dei Centri Sociali, dei gruppi Pro-Pal, delle facoltà occupate, e dei soliti maranza in versione rivoluzionaria del sabato pomeriggio che amano accompagnare le proteste con devastazioni delle città. 

Silenzio di tomba. 

Nessun appello, nessun corteo, nessuna indignazione.
Strano, davvero strano, per chi sbandierava di avere tanto a cuore la causa delle donne e dei bambini palestinese. 

Forse esistono vittime di serie A e di serie B, a seconda di chi impugna il kalashnikov, o se preferite a seconda di chi è il boia.

Se uno fosse malizioso, potrebbe pensare che le proteste servivano solo finché tornavano utili a Hamas. 

Ora, con i riflettori spenti, il Movimento può regolare i conti in santa pace.
E così ha fatto: rastrellamenti, arresti, esecuzioni sommarie pubbliche. 

Tutto documentato da video e foto.
A Gaza, il potere Hamas lo consolida con il terrore, com’è sempre stato da quando si è insediata nella Striscia.

Perché Hamas non ha mai avuto l’intenzione di deporre le armi, né l’ha mai nascosta. 

E infatti ha ripreso ad usarle con zelo, scatenando una caccia spietata contro le fazioni rivali, spesso conclusa appunto con pubbliche esecuzioni trasmesse come reality del terrore.

Quelle immagini, viste da tutti, mostrano una verità scomoda: nella Striscia continua a comandare chi, dal 2007, impone il proprio potere assoluto a colpi di mitra e terrore. 

Ma questa realtà non interessa a chi, qualche mese fa, gridava “blocchiamo tutto” devastando vetrine e negozi in nome della libertà dei popoli.

Viene allora il sospetto che gli slogan “dal fiume al mare” non mirassero affatto alla pace, ma solo a colpire Israele.  

In altre parole che fossero mero antisemitismo mascherato. 

Della fame e dei patimenti dei gazawi, evidentemente, importa poco o nulla.

La guerra, è vero, ha distrutto infrastrutture e istituzioni, ma ha lasciato dietro di sé un vuoto di potere dove clan armati e milizie locali si contendono l’autorità. 

Dentro Gaza, la fine dei bombardamenti non ha portato la pace, ma un nuovo capitolo di violenze interne.
Hamas, indebolito ma tutt’altro che sconfitto, cerca di riaffermare il proprio dominio su un territorio in macerie, anche perché deporre le armi, per i suoi capi, significherebbe la fine politica, e probabilmente anche quella fisica.

Non si tratta dunque, come qualcuno afferma, di “guerra civile”, ma di una “campagna di riconquista del potere”. 

Hamas affronta clan locali, gruppi rivali, e chiunque minacci il suo controllo.
A Gaza City si moltiplicano arresti, incursioni, esecuzioni sommarie, tutte presentate come “misure di sicurezza”, ma che in realtà servono ad eliminare oppositori e a consolidare la paura.

Il Movimento islamista ha sempre governato con il terrore, ma oggi deve fare i conti con una struttura tribale radicata e complessa, che vede l’opportunità di ribellarsi al terrore imposto da Hamas. 
A Rafah, il clan Abu Shabab – guidato da Yasser Abu Shabab – è stato accusato di collaborare con Israele. A Khan Younis, gli Al-Majayda si sono scontrati con le forze di Hamas dopo alcuni arresti.  Nel quartiere di Shuja’iyya, i clan Hellis e Khalas, vicini a Fatah, hanno riaperto vecchie faide del 2007. E nel caos si muovono anche milizie improvvisate  autoproclamatesi “Forze Popolari”, più interessate al saccheggio che alla rivoluzione. 

Gaza è diventata un mosaico di poteri in lotta, ognuno con la propria legge.

In questo quadro, Hamas sfrutta il cessate il fuoco proclamato da Donald Trump,  il quale, con la consueta disinvoltura, l’ha presentato come un grande piano di pace.
Certo, gli ostaggi ancora vivi sono stati rilasciati, ed Israele ha riaperto in parte i valichi per far entrare gli aiuti umanitari. 

Ma per il resto, tutto resta vago.

Nel “piano” di Trump si parla addirittura di un controllo temporaneo di Hamas su alcune zone di Gaza, come se un gruppo di fanatici armati potesse garantire la sicurezza pubblica in qualità di forza di polizia. 

È come affidare la vigilanza notturna di un museo ad una banda di ladri.
Evidentemente, alla Casa Bianca la fiducia è merce abbondante.

Così, il cessate il fuoco ha fermato i carri armati, ma non le esecuzioni.
Le televisioni mostrano un’altra guerra, più silenziosa ma altrettanto sanguinosa: quella per il potere, tra le rovine di una città che non conosce tregua.

Intanto le piazze pro-palestinesi si sono dissolte, della “Flotilla” non parla più nessuno, e Giorgia Meloni annuncia che l’Italia potrà riconoscere lo Stato di Palestina solo se Hamas accetterà di essere disarmato ed escluso dal governo transitorio.
Un quadro realistico, forse. Ma di certo non rassicurante.

Lawrence d’Arabia

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