6 Ottobre 2025 - 9.34

Flotilla, cortei e bandiere: l’illusione che fa dimenticare la realtà

Umberto Baldo

Non pensiate che oggi la mente dei nostri novelli Demostene sia ancora concentrata su Gaza e sulla “Flotilla violata”. 

No, oggi lo sguardo è già migrato altrove, verso la Calabria, dove i voti pesano più delle vite e le urne valgono infinitamente più delle bandiere. Perché alla fine, lo sappiamo bene, a Lor Signori interessa una sola cosa: il consenso.
Io invece torno di proposito sulla vicenda, perché, come diceva il vecchio adagio popolare, “non è tutto oro quel che luccica”. 

Dietro la retorica eroico-marinaresca dei naviganti, dietro la rappresentazione epica della crociera della Flotilla, ci sono nodi che sarebbe troppo comodo ignorare.
Partendo  dal ruolo dell’informazione. 

Scorrendo i media stranieri ho toccato con mano che all’estero la Flotilla è stata trattata come una “notizia”: l’assalto, qualche analisi geopolitica, due righe sui rapporti Israele-Hamas e via, avanti con le crisi vere del pianeta.
In Italia, invece, è stata subito promossa a fiction nazionale: ventiquattr’ore su ventiquattro, con tanto di sottotitoli, risse in studio e deputati trasformati in Che Guevara da salotto.

La scena era questa: il conduttore che apre il collegamento come se stesse annunciando la terza guerra mondiale, opinionisti che si insultano come in una lite condominiale, e il pubblico da casa che pensa: “Ma questi non hanno davvero altro di cui parlare?”.

Perché la Flotilla da noi ha funzionato come specchio delle miserie politiche domestiche. 

La destra ha riscoperto improvvisamente l’amore per Israele, la sinistra si  è vestita da Internazionale del proletariato, e tutti hanno recitato il loro ruolo con la naturalezza di un attore di soap argentina. 

Gaza è diventata la scusa perfetta per non parlare di inflazione, bollette e pensioni.

E poi, diciamolo: in TV un barcone fa più ascolti di una finanziaria. 

La nave che viene abbordata, i parlamentari che sventolano bandiere, i titoli drammatici in sovrimpressione: è il mix perfetto per un pubblico abituato più a Beautiful che alla geopolitica.

Fuori dall’Italia la Flotilla è una notizia, da noi è una telenovela. 

Con la differenza che a scriverla non è un autore, ma l’audience. 

Ed in questa commedia dell’assurdo, la vera flottiglia non era quella diretta a Gaza, ma quella dei talk show che navigano a vista, sperando di non affondare nell’oceano dello share.

Tornando a venerdì scorso, non si tratta certo di minimizzare la protesta: i cortei , le piazze gremite da nord a sud, restano un fatto politico che pesa. 

Bisogna riconoscerlo: il tema “genocidio palestinese” funziona, tira, mobilita, anche chi magari fino ad un mese fa non sapeva neppure dove fosse Gaza. 

Scalda i cuori ed infiamma gli animi, ma – diciamolo senza ipocrisia – scioglie anche qualche muscolo del basso ventre.
Maurizio Landini, fiutata l’aria, ha capito che non poteva lasciare tutto il palcoscenico agli antichi rivali: i Sindacati di base, i Centri sociali, i Collettivi.

Così ha preso la CGIL e l’ha trascinata dentro l’onda emotiva, adattandosi più che guidando. 

Eppure parliamo della stessa CGIL che, in tre anni di invasione russa in Ucraina, non ha mai trovato il tempo per un sit-in davanti all’ambasciata di Mosca. 

Eppure la condizione della popolazione civile dell’Ucraina non è diversa da quella dei gazawi; ai russi che bombardano obiettivi civili non gliene può fregar di meno di ordinare gli sgomberi prima di scatenare una tempesta di droni. Ci sono almeno 700mila ucraini che si sono rifugiati nei paesi confinanti o in altre parti del Paese (anche se nessuna è al sicuro). Non si sa nulla dei 20mila bambini rapiti.

Coerenza, questa sconosciuta.

Un dato è certo: Netanyahu la guerra sul terreno militare la sta vincendo, ma quella sul piano mediatico l’ha persa da tempo.

È lì che si gioca il guaio più grosso. 

L’informazione, martellata da un mantra continuo di crisi umanitaria, non lascia spazio a dubbi. 

Eppure qualche voce fuori dal coro si è fatta sentire: solo la Stampa Vaticana, con una certa onestà intellettuale, ha ricordato che, fonte Onu, tra maggio e agosto sono entrate nella Striscia circa 40mila tonnellate di cibo e medicinali. 

Peccato che solo un decimo sia arrivato davvero a destinazione, mentre il resto è finito spesso nelle mani di miliziani armati. 

Una realtà che non sfonda però nella narrazione dominante, perché non si concilia con i cori da stadio delle piazze.

E qui veniamo al cuore del problema: la protesta ha dentro un nucleo sincero – specialmente nei giovani, che chiedono pace, fine della guerra, liberazione degli ostaggi – ma si mescola a derive inquietanti. 

Due, in particolare. La prima è la banalizzazione di slogan come “From the river to the sea”: parole che non sono neutre, ma parte integrante dello Statuto e del lessico di Hamas, e che implicano la cancellazione di Israele. 

La seconda è l’intolleranza verso chi prova a ricordare il massacro del 7 ottobre o anche solo le vittime israeliane: sottolineature che sottraggono alla protesta ogni capacità di discernimento, trasformando l’indignazione in cieca ostilità.

Si può discutere a lungo sulla vera natura della Global Flotilla. 

La tempistica del viaggio alimenta più di un sospetto: che l’operazione sia stata, più che una missione umanitaria, un gigantesco spot politico contro il governo “sionista” di Giorgia Meloni, colpevole di non aver riconosciuto lo Stato di Palestina.

E molti ci hanno creduto, scendendo in piazza con fervore, qualcuno devastando vetrine o bloccando trasporti, sventolando bandiere palestinesi, che ormai, per certa sinistra, hanno sostituito il tricolore.

Quanto allo sciopero, meglio distinguere: la protesta politica è una cosa, la mobilitazione sindacale un’altra. 

Landini sembra volerle far coincidere, ma i numeri raccontano altro. 

Lo vediamo dal solito balletto: cifre gonfiate dagli organizzatori, ridimensionate dalle Questure. 

E lo vediamo soprattutto dal fatto che i comparti più delicati – scuola e sanità – hanno registrato percentuali di adesione minime: 7,43% nella scuola (giù rispetto al 10% di settembre) e un misero 1,77% in sanità. 

Alla fine, chi aveva le ragioni più concrete per protestare, ha scelto di restare al lavoro.

Vorrei chiudere con un inciso che può sembrare fuori tema, ma non lo è affatto. 

Landini, ora alla guida di un sindacato glorioso ridotto a inseguire gli estremisti, sembra aver dimenticato un dato storico: il primo sindacato libero del Medio Oriente è stato l’Histadrut, fondato negli anni Venti nella Palestina mandataria, molto prima della nascita dello Stato di Israele. 

Una struttura nata per difendere i lavoratori ebrei, e che ancora oggi resta la principale organizzazione sindacale israeliana. 

Invece a Gaza, da quando Hamas ha preso il potere nel 2005, non si è mai vista l’ombra di un sindacato libero.
E per una sigla con la tradizione della CGIL, questa non dovrebbe essere una differenza di poco conto.

Umberto Baldo

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