Alessandro Malaspina. Esplorò mezzo mondo, ma in Italia è uno sconosciuto

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Umberto Baldo
Per un giorno consentiamoci di non parlare di cronaca, di politica, di guerre.
E visto che siamo in piena estate, tradizionale tempo di viaggi, oggi parliamo di un italiano che sono sicuro pochi di voi hanno mai sentito nominare, uno straordinario navigatore-esploratore che la storia ha dimenticato: Alessandro Malaspina.
C’è qualcosa di profondamente italiano nel destino di Alessandro Malaspina: fare una cosa gigantesca, epocale, visionaria, e finire dimenticato in una nota a piè di pagina.
In fondo, noi italiani siamo così: abbiamo inventato il Rinascimento e poi ci siamo scordati dove l’avevamo messo.
E così, mentre in Canada ti puoi laureare al Malaspina College, in Alaska puoi passeggiare sul Malaspina Glacier, e in Spagna gli dedicano mostre e tesi di dottorato, qui da noi al massimo gli intestiamo un incrocio tra un distributore di benzina ed un centro revisioni.
Ma andiamo con ordine.
Malaspina nasce a Mulazzo, piccolo borgo nella Lunigiana, nel 1754.
È un rampollo della nobile famiglia che aveva dominato per secoli quelle terre di confine tra Toscana, Liguria e Parma.
Ma a differenza dei suoi avi, non sogna castelli né feudi: vuole il mare, e vuole la conoscenza.
Studia a Roma e poi entra nella marina spagnola, dove farà una fulminante carriera militare, distinguendosi sia per le sue capacità navali che per la lucidità intellettuale.
In pieno spirito illuminista, ritiene che la vera potenza di una nazione si misuri dalla sua capacità di conoscere il mondo, non solo di dominarlo.
Perché sceglie la Spagna? Perché era ancora “l’impero su cui non tramonta mai il sole”, e quindi offriva straordinarie opportunità per un uomo della sua tempra e con i suoi interessi.
Nel 1789, proprio mentre a Parigi cadeva la Bastiglia, convinse la corte spagnola a finanziare una spedizione globale: un viaggio per esplorare, mappare e studiare i vasti territori dell’Impero spagnolo, dalla Patagonia fino alle Filippine.
Una sorta di “missione Cook in salsa ispanica”, con intenti non solo geografici ma anche politici, economici ed antropologici.
Due corvette, la Descubierta e l’Atrevida, salpano da Cadice al suo comando.
A bordo non ci sono solo marinai, ma astronomi, botanici, cartografi, pittori, chirurghi; un’enciclopedia galleggiante. L’obiettivo è duplice: raccogliere dati scientifici, e valutare l’efficienza dell’amministrazione coloniale.
Il tutto con una mentalità riformista: d’altronde siamo in pieno Illuminismo, e Malaspina vuole portare la ragione là dove regna ancora l’arbitrio del potere coloniale.
Cinque anni in mare. Dalla Patagonia all’Alaska, passando per le Filippine e le Tonga. Con due corvette e, come accennato, a bordo più scienziati che in una puntata di SuperQuark.
Malaspina studia, mappa, descrive, osserva, annota.
Scopre che l’Impero spagnolo è vasto ma mal gestito; che i governatori locali sono incapaci (ma questo lo sapevano anche i pappagalli delle Antille); che i popoli indigeni sono trattati come schiavi; che le riforme sono urgenti quanto l’invenzione del sapone.
Al ritorno in Spagna, acclamato dal popolo come un eroe, presenta una relazione al Re, e da uomo trasparente e onesto qual’è non scrive quello che a Madrid avrebbero voluto leggere, bensì la verità.
Una bomba, elegante, illuminista, ma una bomba.
E come reagisce la Corona? Gli dà una medaglia? Lo nomina viceré? Lo manda all’Accademia delle Scienze?
No, lo sbatte in prigione, senza processo, per sette anni.
Motivo? Aver detto troppe cose giuste nel momento sbagliato, e aver proposto riforme troppo avanti per la mentalità della Corte spagnola dell’epoca.
Detto in altre parole: nessuno è profeta in patria, soprattutto se la patria ha un ministro chiamato Manuel Godoy, ambizioso come Napoleone, ma con la visione geopolitica di un orologio da tasca rotto.
Malaspina esce di prigione nel 1802. Gli dicono “vai in pensione”.
Si ritira a Pontremoli.
E lì muore nel 1810, circondato dall’indifferenza più assoluta. Non un monumento. Non una cattedra. Neppure un francobollo.
La sua opera, fatta di osservazioni geografiche, politiche, botaniche, meteorologiche, viene sigillata negli archivi spagnoli, come se fosse radioattiva.
Così la sua immensa documentazione, oltre 30 volumi di relazioni, mappe, studi, disegni, osservazioni geografiche, botaniche, meteorologiche, politiche, resta non consultabile da nessuno per oltre cento anni.
Solo nel XX secolo alcuni storici (soprattutto canadesi, cileni e spagnoli) cominciano a rimettere insieme i pezzi.
Oggi, in Canada e Alaska, ci sono il Malaspina Glacier, il Malaspina Channel, il Malaspina College; in Spagna è celebrato come un pioniere dell’esplorazione illuminista.
E in Italia? Una scuola nautica a La Spezia. Qualche via qua e là. Nessun posto nei libri di testo.
Da noi si continua a studiare Cristoforo Colombo, e magari pure Amerigo Vespucci.
Ma di Malaspina nessuno sa niente, perché non ha “scoperto l’America”, ma ha “solo” capito il mondo. E questo, si sa, non fa curriculum.
Alessandro Malaspina rappresenta il paradosso tutto italiano dell’intelligenza che brilla all’estero e viene dimenticata in patria.
Un uomo che ha viaggiato più di Colombo e cartografato più di Magellano, che ha anticipato Darwin nell’osservare la relazione tra ambiente e società, che ha compreso i limiti dell’Impero e la dignità delle culture indigene.
Ma forse proprio per questo la sua voce non era gradita. Era troppo moderno, troppo onesto, troppo lucido. E quindi da rimuovere. Da confinare. Da dimenticare.
Come tanti italiani eccellenti, Malaspina ha avuto la sfortuna di essere un italiano giusto in un’Italia ed in una Spagna sbagliata.
Oggi, a volerci ridere sopra, Malaspina potrebbe essere il patrono dei cervelli in fuga, dei riformatori incompresi, degli esploratori con la sfortuna di dire la verità.
Potremmo metterlo sul logo dell’Inps: “Viaggio per conoscere, finisco dimenticato”.
In un Paese dove nei quadri si celebrano i navigatori con le vele, ed i santi con le aureole dorate, Malaspina paga il peccato peggiore: quello della lucidità, della competenza, della visione.
Ecco perché bisogna ricordarlo.
Perché ci serve disperatamente uno come lui, oggi più che mai.
Uno che guardi oltre l’orizzonte, senza chiedere like, followers o consulenze a Bruxelles.
Umberto Baldo
PS: la prossima volta che vi capita di sentire un patriota dire che “dobbiamo valorizzare i nostri talenti”, domandategli se conosce Alessandro Malaspina.
Se vi guarda strano, avete la risposta su quanta strada “aaaa Naaaazzziiioooone” debba ancora fare













