18 Dicembre 2025 - 9.44

Abolire la Fornero? Una favola elettorale lunga quindici anni

Umberto Baldo

Per oltre quindici anni Matteo Salvini ha promesso, comizio dopo comizio, l’abolizione della legge Fornero.
Un vero e proprio mantra, che per il Capitano ha assunto i contorni dell’ossessione: “Quando saremo al governo cancelleremo la legge Fornero”.

Una promessa elementare, diretta, populista, calibrata  per arrivare dritta al cuore – e alla pancia – di milioni di italiani spazientiti da quella che resta una delle riforme più odiate della storia repubblicana. 

Una promessa ripetuta ovunque: nei comizi, davanti alle telecamere, nei talk show, sui manifesti elettorali.

Con toni apocalittici che oggi, col senno di poi, assumono i toni di una farsa. 

Tanto che in Rete circolano ancora i video di comizi in cui il Capitano si diceva disponibile a farsi “spernacchiare” qualora non avesse abolito la Fornero.
Sarebbe fin troppo facile invocare oggi una pernacchia collettiva, atomica, di tutti gli italiani.

Ma inutile girarci attorno: dopo oltre quindici anni di campagne elettorali, governi, ribaltoni ed alleanze variabili, la realtà è rimasta inchiodata allo stesso punto: la legge Fornero non è stata abolita.
Anzi, è ancora lì, con tutte le sue rigidità e con effetti pesanti per migliaia di lavoratori costretti a restare al lavoro ben oltre l’età in cui sono andati in pensione i loro padri ed i loro nonni.

Sarebbe troppo comodo liquidare tutto con il vecchio adagio del “tra il dire e il fare…”.
Perché, al netto di correttivi temporanei come Quota 100, o altre fantasiose soluzioni parziali e a scadenza, siamo arrivati al punto in cui anche i più ostinati devono prendere atto che “il re è nudo”.

Eppure, per una classe politica che pretende di decidere su tutto, non sarebbe stato difficile capire per tempo che le previsioni della legge Fornero diventano, anno dopo anno, sempre più intoccabili per un motivo ormai evidente: la demografia.
Da anni gli esperti avvertono che ci attendono decenni segnati da una drastica riduzione della popolazione giovane, e da una forte crescita di quella anziana.

Una tendenza strutturale difficilmente compatibile con un sistema come il nostro, che finanzia le pensioni di oggi con i contributi versati dai lavoratori in attività.
Un sistema fondato su un patto di “solidarietà generazionale”: i lavoratori di oggi pagano le pensioni di padri, zii e nonni, confidando che domani altri lavoratori faranno lo stesso per loro.

Ma è proprio la demografia, con il progressivo calo della popolazione attiva, a mettere in crisi questo assioma. 

Tanto che già oggi, per garantire la tenuta del sistema, i Governi sono costretti ad intervenire sul monte pensioni con risorse della fiscalità generale o con nuovo debito, scaricando così il peso sulle generazioni future.

Basta un solo indicatore per capire la portata del problema: il tasso di dipendenza degli anziani, ossia il rapporto tra over 65 e popolazione in età lavorativa (20-64 anni). 

Secondo l’Ocse, in Italia questo tasso passerà dall’attuale 41% a circa il 76% entro il 2060.
Una data che sembra lontana, ma che in realtà coincide con il “domani” di chi oggi è nel pieno della propria vita lavorativa.

Non serve essere dei geni per capire che, con questi numeri, è semplicemente assurdo continuare ad alimentare l’illusione di un ritorno alle normative pre-Fornero, spesso figlie di calcoli politici miopi (qualcuno ricorda le baby pensioni?).

Senza più lavoratori, senza più lavoratrici, senza salari più alti, e senza maggiori contributi, quella stagione non può tornare.

Ecco perché non mi ha affatto sorpreso l’emendamento del Governo alla bozza della prossima legge di Bilancio, che prevede una doppia stretta sulle pensioni anticipate: tempi più lunghi per l’assegno e penalizzazioni sul riscatto della laurea (con annessa, prevedibile, valanga di ricorsi qualora dovesse essere approvata nella formulazione illustrata dai media).

Non mi ha stupito perché, dopo anni di promesse urlate, di “via la Fornero”, di farsa permanente, Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti hanno semplicemente certificato una verità scomoda: una vera controriforma pensionistica non si può fare.

Ma al di là delle misure, che considero inevitabili, resta un problema più profondo: la politica ha smarrito l’etica.
Promettere ciò che si sa essere irrealizzabile non è solo mancanza di rispetto verso l’elettore; è una violazione del patto di fiducia che sta alla base della democrazia.

So bene che parlare di etica pubblica oggi sembra quasi un’eresia. 

Eppure, da sempre, sotto ogni cielo, l’etica pubblica si fonda sulla responsabilità della parola data.
Forse a Salvini, e a tanti altri come lui, potrà sembrare assurdo, ma ogni  promessa, per chi governa, diventa automaticamente un patto morale con il cittadino.

Allora che si fa? Cancelliamo le campagne elettorali? 

Sicuramente No.     Ma smettere di trasformarle in una saga di bugie travestite da promesse sarebbe già un buon inizio.

I nostri moderni Demostene dovrebbero ricordare che tradire sistematicamente la fiducia degli elettori non distrugge solo la propria credibilità, ma quella dell’intero sistema politico.
E colpisce vedere che, nonostante tutto, ci siano ancora cittadini disposti a crederci , anche se sempre meno, come dimostra l’astensionismo crescente.

Forse pesa anche un sistema mediatico concentrato tutto sull’oggi, che favorisce una pericolosa amnesia collettiva.
Così la vicenda della Fornero non è solo la storia di un leader che ha raccontato favole, ma quella di un Paese che troppo spesso fa finta di non capire che lo stanno prendendo in giro.

Ecco perché il problema è generale: non possiamo più permetterci una politica che vive di slogan, che promette tutto a tutti, e poi  dimentica.
L’unica via d’uscita è un elettorato consapevole, informato, capace di ricordare.

Perché solo non votando chi racconta balle si può spezzare il ciclo infinito delle promesse mancate.

Umberto Baldo

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