Il 2025 se ne va ma il gattopardo resta: scopri che anno è stato

Nel bene o nel male – dipende sempre dai punti di vista – siamo arrivati all’epilogo anche di questo 2025.
Come ogni 31 dicembre, avvicinandosi alle fatidiche 23.59, scatta quasi automaticamente il riflesso di guardare avanti, all’anno che inizierà alle 00.01, riversandoci sopra paure, speranze, illusioni e aspettative.
Quest’anno però evito volentieri la solita presa in giro degli oroscopi, scritti da abili furbacchioni che campano da sempre sulla credulità altrui, usando frasi talmente vaghe da consentire a chiunque, a posteriori, di dire: “Visto? Ci avevano preso”.
È la nota storia dell’orologio rotto: due volte al giorno segna comunque l’ora esatta.
No, per questo mio ultimo pezzo del 2025 preferisco provare a fare un bilancio.
Dell’anno, certo, ma anche della fase politica che stiamo attraversando.
Come ormai accade dal lontano 2018, anche il 2025 si chiude con l’approvazione della legge di Bilancio a colpi di voti di fiducia, trascinandosi dietro le rituali proteste: quelle dell’opposizione, ma anche quelle – sempre più frequenti – di pezzi della stessa maggioranza.
Impossibile dire che questa sia una Finanziaria capace di far sognare.
Anche perché, per il terzo anno consecutivo, appare piuttosto evidente come molte delle promesse elettorali dei “patrioti” al governo siano rimaste tali.
Quindi nessuna misura sfacciatamente populista che ci indebiti di più o ci renda inaffidabili, ma nemmeno manovre coraggiose in senso liberista che diano uno slancio alla crescita asfittica degli ultimi anni.
Va riconosciuto, questo sì, che sono state ripristinate le regole di bilancio europee, devastate dalle follie miliardarie del Superbonus 110%.
Ma, da liberale, permettetemi di dire che forse si poteva osare qualcosa in più sul terreno di una seria revisione della spesa pubblica, soprattutto di quella assistenziale, delle privatizzazioni, e della riduzione dello Stato nell’economia.
Il problema è noto: sussidi e bonus, insieme a flat tax e condoni, restano la via maestra dei nostri moderni Demostene.
Tagliare davvero significherebbe andare contro la logica del consenso, e questo – in politica – è quasi sempre un peccato mortale.
La vera domanda, però, quella che ad esempio ha permesso a Donald Trump di vincere le ultime presidenziali, è un’altra: dopo tre anni di destra al governo, cosa è cambiato concretamente nella vita degli italiani?
Meglio ancora: il cittadino medio può dire di stare meglio di prima?
Onestamente faccio fatica a indicare qualcosa di davvero rilevante, qualcosa che segni una svolta netta e dica al Paese, nel bene o nel male: “da qui è passata la destra” – sovranista, nazionale, sociale, patriottica, popolare, conservatrice, cristiana, o come preferite chiamarla – lasciando un’impronta inconfondibile.
Lo dico senza alcuna soddisfazione, e senza compiacimento.
Le campagne propagandistiche, sia filogovernative che antigovernative, raccontano trionfi e disastri che nella realtà non esistono, dipingono paradisi o inferni immaginari, alimentando una contrapposizione bipolare che serve più che altro a mobilitare le tifoserie.
La sensazione, invece, è che nulla di veramente sostanziale sia cambiato nella vita quotidiana, negli assetti economici e sociali, nella politica estera, ma anche – ed è forse più grave – sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici.
Persino in Rai, il “servizio pubblico” (dei pacchi), la minestra è sempre la stessa: Vespa, Venier, Carlucci.
Nulla di nuovo sotto il sole. Con l’aggravante che ai telegiornali Rai, dove ormai onorevoli ridotti a “veline” recitano ogni sera la poesia imparata dai Capi, personalmente tendo a preferire Mentana, o i canali All-news: almeno lì le notizie non me le spiegano, provo a capirle da solo. E se qualcosa non mi convince, approfondisco.
A onor del vero, non è che le cose siano peggiorate con la destra al potere.
Del resto la spiegazione l’aveva data, con disarmante sincerità, Bruno Vespa nel lontano 1992: “Il mio editore è la Dc”. In Rai l’editore è sempre stato il partito – o la coalizione – che comanda. Cambiano i colori, non il meccanismo.
Certo, i “patrioti” ci hanno rassicurato sull’oro, mettendo nero su bianco che è “nostro”, degli italiani. Ma dubito che per questo il cittadino comune si senta più ricco.
In sintesi: tanta retorica da comizio, parecchia ipocrisia, molte furbizie.
Perché mentre nei convegni, come da ultimo Atreju, si parla di rivoluzione e di egemonia culturale finalmente ritrovata, nella realtà dei fatti non si vede alcun cambio di passo: nessuna svolta e nessuna discontinuità.
Quello a cui stiamo assistendo è un semplice, ordinato e rassicurante mantenimento del potere.
Neppure sul piano del personale politico si sono viste rivoluzioni.
Se la diffidenza porta a circondarsi di familiari o di fedelissimi il cui unico merito è l’essere sempre stati “a destra”, o aver fiutato per tempo l’aria saltando sul carro di Fratelli d’Italia, non ci si può stupire se molti Ministri sembrano più comparse che protagonisti, e se la cifra dominante resta l’aurea mediocritas.
Risultato? La classe dirigente della destra italiana è molto modesta, con qualche eccezione che conferma la regola.
Ma la sinistra di Schlein-Conte-Fratoianni oggi sarebbe in grado di mettere in campo una classe dirigente migliore?
Nulla di tutto ciò mi ha veramente sorpreso.
Ho visto troppa politica per credere che anche solo una minima parte delle iperboliche promesse elettorali potesse davvero essere mantenuta.
Ormai è chiaro: a dettare l’agenda, qualunque sia l’inquilino di Palazzo Chigi, è l’economia.
E con un bilancio dissestato dal Superbonus, cosa avrebbe potuto fare davvero la Premier? Togliere le accise? Tagliare le tasse? Alzare gli stipendi?
Forse qualcosa si poteva fare: limitare la politica del panem et circenses (bonus, condoni, sovvenzioni), rinunciare alla tutela di rendite intoccabili, dai balneari ai tassisti, e magari provare a far pagare qualcosa in più (non tutto, tranquilli che se no si inquietano) a chi evade e campa sulle spalle dei contribuenti onesti.
Alla fine ha prevalso la solita politica del “un colpo al cerchio e uno alla botte”, del “lisciare il pelo” alle categorie “amiche”, con l’unico risultato concreto di riportare il rapporto deficit/Pil nei parametri europei ,ed uscire dalla procedura di disavanzo eccessivo.
E non fatevi incantare dalle intemerate di Schlein, Conte o Fratoianni: fossero stati loro al governo, le “patrimoniali” e gli “espropri proletari” sarebbero evaporati in fretta, sostituiti da una rigorosa adesione alla linea politico-economica “draghiana”.
Nel complesso, va detto, Giorgia Meloni ha governato con abilità, astuzia e prudenza.
È cresciuta sul piano internazionale, anche grazie al vuoto di leadership in Europa, dove molti capi di governo appaiono più deboli e meno popolari di lei.
In economia, che è la grande assente dalla cultura politica di tutti i Partiti, nessuno escluso, servirebbe andare di più verso il mercato, ridurre la presenza dello Stato in quasi tutti i settori in cui opera, abbandonare le corporazioni (es. tassisti, balneari, ecc.) che palesemente non vogliono la concorrenza ma la difesa delle loro rendite di posizione.
Vi sembra un’analisi disfattista? Può darsi. Dipende da come la pensate.
Ma se, facendo gli auguri di fine anno ai dipendenti di Palazzo Chigi, la stessa Meloni ha detto: “È stato un anno tosto, ma il 2026 sarà molto peggio”, forse non è il caso di indulgere in facili ottimismi.
Se lo dice lei, solitamente abituata a mostrare che “tout va très bien”, un motivo ci sarà.
Del resto, la tradizione più antica e diffusa è augurarsi che l’anno nuovo sia migliore del precedente.
È un’abitudine significativa: ci ricorda che, nella storia dell’umanità, non c’è mai stato un anno così ben riuscito da sperare in un bis.
Ad ogni buon conto, ovunque voi siate, con chiunque voi siate, e comunque la pensiate, anche a nome degli amici della redazione di Tviweb, auguro a tutti un sincero Buon Anno Nuovo.













