29 Dicembre 2025 - 11.13

L’informazione come mezzo, non più come fine. Giornali in vendita, democrazia in saldo

Umberto Baldo

Quasi sicuramente il nuovo anno porterà un notevole rimescolamento nella mappa delle proprietà dell’editoria italiana.
Si tratta di un argomento piuttosto “delicato” visto che parliamo di una cosa che in una democrazia è una “conditio sine qua non”; il controllo delle fonti di informazione, e di conseguenza la libertà di stampa e dei giornalisti.
C’è un’apparente contraddizione che da anni accompagna il declino dell’editoria italiana: i giornali vendono sempre meno, perdono soldi, tagliano redazioni, eppure continuano ad interessare grandi imprenditori.
Perché?
La risposta è semplice, anche se poco rassicurante: i giornali oggi contano poco come mercato, ma moltissimo come potere.
Non sono più macchine per fare profitti.
Sono diventati strumenti per orientare l’agenda, influenzare il clima, presidiare il dibattito pubblico.
Ed in un Paese fragile, questo vale oro.
Un quotidiano non decide cosa penseranno i lettori, ma decide di cosa si parlerà domani mattina.
E soprattutto: cosa finirà in prima pagina, cosa a pagina 27, cosa non verrà proprio raccontato.
È una forma di potere silenziosa, ma estremamente efficace.
Per un grande gruppo industriale un giornale funziona come una polizza assicurativa permanente.
Non serve che difenda apertamente il proprietario.
Basta che: ridimensioni una notizia scomoda, sposti il fuoco altrove, eviti di accendere riflettori inutili
Nel mondo dell’informazione, il silenzio è spesso più utile dell’elogio.
C’è poi un altro aspetto, ancora più concreto: l’accesso.
Chi possiede un giornale entra automaticamente in un circuito ristretto: viene ascoltato dalla politica, interloquisce con i Ministeri o comunque con chi detiene il potere, partecipa alle conversazioni che contano.
Non perché sia più bravo, ma perché è percepito come “editore”.
E in Italia, l’editore non è mai solo un imprenditore: è un soggetto politico, anche quando finge di non esserlo.
Il costo dell’operazione, per colossi industriali, è quasi irrilevante.
Perdere qualche decina di milioni l’anno su un quotidiano è nulla rispetto ai benefici indiretti: reputazione, relazioni, protezione, influenza.
Un giornale costa meno di una grande campagna pubblicitaria, ma lavora tutti i giorni, senza scadenza.
Per citare solo qualche caso, Antonio Angelucci, imprenditore del settore sanitario, controlla Libero, Il Tempo, Il Giornale ed altri quotidiani dell’Italia centrale; Francesco Caltagirone Il Messaggero (Roma), Il Mattino (Napoli), Il Gazzettino (Venezia), Nuovo quotidiano di Puglia (Lecce), Corriere Adriatico (Ancona); Enrico Marchi Il Corriere delle Alpi (Belluno), La Nuova di Venezia e Mestre (Venezia), Il Mattino di Padova (Padova), Il Piccolo (Trieste), La Tribuna di Treviso (Treviso), Messaggero Veneto (Udine) e Nordest Economia (Venezia).
E’ di questi giorni la notizia del grande interesse di Leonardo Maria Del Vecchio di costituire un proprio Gruppo editoriale attraverso l’acquisto di giornali.
Come accennato all’inizio, i bilanci di quasi tutti i giornali italiani sono in rosso, i lettori continuano a diminuire e la raccolta pubblicitaria ad annaspare. Dinanzi a questo scenario apocalittico, tra gli editori storici c’è chi vende e si libera di un fardello ingombrante, mentre altri acquistano.
E non si tratta di “editori puri”, bensì di imprenditori attivi in altri settori (costruzioni, automobili, petrolio, cliniche private, aeroporti, ecc,) che investono grandi capitali nell’editoria, anche a costo di rimetterci.
E’ evidente che questi Signori non comprano i giornali per salvarli.
Li comprano per pesare di più.
Venendo alla stretta attualità, Exor, la holding della Famiglia Agnelli-Elkann sembra decisa ad uscire dal settore; e non in punta di piedi; mettendo in vendita l’intero gruppo GEDI: la Repubblica, La Stampa, radio, quotidiani locali.
Mica bruscolini! Tutto.
Ma permettetemi di dire che la cessione di La Repubblica e La Stampa costituisce un caso emblematico.
Perché non sono semplici testate in vendita. Sono pezzi di storia italiana.
La Stampa è stata per decenni la voce sobria, torinese, industriale ma anche istituzionale di questo Paese.
La Repubblica ha rappresentato, nel bene e nel male, un’idea di giornalismo militante, colto, capace di incidere nel dibattito pubblico.
Vederle oggi trattate come asset da dismettere, spacchettare o rivendere, dice molto più di mille analisi sullo stato dell’informazione.
La notizia, confermata ufficialmente nel corso di questo mese, ha scosso le redazioni e riaperto un dibattito che va ben oltre il destino di qualche testata storica: che fine farà l’informazione in Italia quando anche chi per un secolo l’ha usata come leva decide che non gli serve più?
Ma come abbiamo visto, in questi giorni c’è la fila per comprare, a dimostrazione che in un sistema in cui la politica è debole, i Partiti sono svuotati, ed il dibattito pubblico è frammentato, pesare conta più che guadagnare.
Non è una novità, in realtà.
In Italia i giornali sono quasi sempre stati strumenti di potere e pressione prima che imprese.
La differenza è che un tempo c’erano grandi idee, grandi direttori, grandi firme, culture politiche.
Oggi spesso resta solo lo strumento.
I giornali non vendono più, ma servono ancora moltissimo a chi li possiede.
Come accennato, per un grande industriale un giornale è una assicurazione permanente: non serve difendersi apertamente, basta non essere attaccati.
Il silenzio, nel sistema mediatico, vale spesso più di mille editoriali benevoli.
E allora perché Elkann esce mentre altri entrano?
Perché non tutti hanno bisogno delle stesse leve.
Exor è oggi una holding globale, finanziaria, internazionale.
Il suo baricentro non è più Roma, ma i mercati, gli investitori, le grandi partite industriali e tecnologiche.
In quel mondo, il controllo dell’agenda politica italiana conta sempre meno, ed un gruppo editoriale in perdita non è più un asset strategico, ma un fardello.
Il paradosso è che a pagare il prezzo di queste strategie non sono gli editori, ma le redazioni, che non sono solo posti di lavoro, ma depositi di memoria, competenze, identità civica. Giornalisti che per anni hanno raccontato territori, politica, economia, e che oggi scoprono di essere una variabile secondaria in operazioni decise altrove.
Ma in ultima analisi a rimetterci veramente sono i lettori.
Perché quando i giornali diventano solo strumenti – da comprare o da vendere come a Monopoli – l’informazione smette di essere un fine e resta solo un mezzo.
E attenzione: non è un rischio solo italiano.
Negli Stati Uniti Donald Trump ha costruito gran parte della propria forza politica delegittimando sistematicamente i giornali che raccontavano verità per lui scomode.
Li ha accusati di mentire, li ha esclusi, minacciati, ridotti a “nemici del popolo”, trasformando la stampa libera in un avversario politico da colpire, non in un contropotere da rispettare.
È un passaggio cruciale: quando chi governa non cerca più di convincere i giornali, ma di zittirli o screditarli, la democrazia entra in una zona grigia.
E badate bene: il giorno in cui i giornali non serviranno più a nessuno che conta, non sarà un problema di bilanci.
Sarà un problema di democrazia.
Umberto Baldo

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