19 Dicembre 2025 - 9.40

Quando la crescita fa ridere: il Paese tra mattone, BTP e padroni del vapore

Umberto Baldo

Ogni volta che sento un Premier od un Ministro parlare di “rilancio del sistema produttivo”, di “più crescita, più investimenti, più competitività”, non riesco a trattenermi: mi scappa un sorriso.
Non un sorriso educato, no: un ghigno da spettatore al circo, tra giocolieri incapaci e clown con la cravatta di seta  che ci spiegano il capitalismo come fosse un gioco da tavolo per bambini.

Perché?

Perché in Italia c’è da sempre un grande assente dal discorso pubblico: il mercato dei capitali.
O meglio, c’è, ma solo come fantasma rituale da evocare nei discorsi ufficiali, mai come scelta politica concreta. 

I numeri parlano chiaro: la Borsa italiana vale circa 750–800 miliardi di euro, il 34% del PIL. 

Ultimi tra le grandi economie europee.

Confrontiamo: Svizzera oltre il 220%, Regno Unito quasi al 100%, Lussemburgo al 63%, Germania e Spagna intorno al 45–46%. 

Noi? Tra 34% e 38%. 

Una vergogna sistemica, che nemmeno le promesse di qualche Ministro rampante riescono a mascherare.

Non un incidente, ma un modello strutturale che si perpetua Governo dopo Governo, maggioranza dopo maggioranza.
L’attuale Esecutivo ama parlare di “difesa del risparmio degli italiani”, di “campioni nazionali”. 

Peccato che difendere il risparmio non significhi solo proteggerlo dall’inflazione o dai mercati esteri: significa metterlo nelle condizioni di finanziare lo sviluppo. 

Ma qui i Ministri preferiscono fare passerella, sventolando decreti e conferenze stampa come fossero trofei.

E poi c’è la solita “caduta di stile”: Golden Power a gogò, arbitro e giocatore nello stesso tempo, la confusione tra politica e finanza degna di un film comico. 

Qualcuno dovrebbe spiegare che non si può governare un Paese come un impero familiare dove il capo si firma “sovrano del mattone e dell’obbligazione”.

L’Italia non ama la Borsa perché non ama ciò che la Borsa rappresenta: trasparenza, governance vera, giudizio quotidiano del mercato. 

Il capitalismo italiano non è mai stato ostile al profitto; è sempre stato ostile al rischio di perdere il controllo. 

Le aziende familiari, padroni del vapore moderni, vedono la quotazione come una minaccia esistenziale: bilanci aperti, soci scomodi, verifiche vere. 

Meglio restare piccoli, sottocapitalizzati, ma padroni assoluti.

Ed il sistema bancario, da sempre al fianco degli imprenditori-padroni, ha fatto il resto: drogando l’economia di debito e scoraggiando l’equity. 

Le imprese si finanziavano con le banche, e così le banche mantenevano il potere sulle imprese. 

Tutto in ordine, mentre i banchieri si godevano il potere come regine e re di un piccolo regno di carta…. tutto in ordine fino alla prossima crisi a mostrare tutta la fragilità del castello,

Il paradosso? In un Paese di grandi risparmiatori, la ricchezza privata resta lontana dall’economia reale. 

Immobili, contanti, titoli di Stato. 

La Borsa? 

Per decenni dipinta come un casinò, mai come strumento di partecipazione alla crescita. 

Nessuna educazione finanziaria, nessuna strategia pubblica per convogliare capitali verso le imprese.

Lo Stato, invece, resta ambiguo come sempre: invoca il mercato solo per fare cassa. 

Privatizzazioni senza visione, incentivi a singhiozzo, burocrazia paralizzante, tassazione che colpisce chi osa aprirsi al mercato e premia chi resta chiuso. 

Il risultato? 

Mercato piccolo, Stato gigante, inefficienze, clientelismo a volontà (pensate che i politici rinuncino facilmente al potere di indicare nei Cda delle partecipate propri fedelissimi?). 

Ministri e Sottosegretari  che  si applaudono a vicenda, come se la finanza fosse un teatrino di marionette.

Una Borsa più grande sarebbe libertà economica, meno Stato-arbitro, più regolatore. 

Ed è proprio per questo che l’Italia l’ha sempre guardata con sospetto, mentre industriali, palazzinari e banchieri sorridevano dietro le quinte.

E poi c’è il dato culturale: un Paese anziano, mentalmente e anagraficamente, difende la rendita più della crescita. 

La Borsa è rischio, pazienza, orizzonte lungo. 

È l’opposto del mattone “che non tradisce”, e del BTP “che consola”. 

Così il mercato resta piccolo, volatile, dipendente dai capitali esteri, che entrano e scappano senza legami con il sistema produttivo.

Intanto, vediamo scene già viste: aziende che si quotano e poi scappano, imprese eccellenti in mani straniere, capitali e giovani talenti che cercano altrove mercati più aperti. 

Ed ogni volta il commento è lo stesso: “la Borsa non fa per noi”. 

Tradotto: “Non si disturbino i nostri interessi consolidati”.

La verità, invece, è scomoda: una Borsa sviluppata spezza rendite consolidate, apre il potere, redistribuisce capitale.

È uno strumento di libertà economica, non un tempio della speculazione. 

E proprio per questo, l’Italia l’ha sempre guardata con sospetto, mentre politici, baroni e banchieri continuano a giocare con la vita economica del Paese come se fosse Monopoli.

E poi ci lamentiamo della crescita che non c’è, delle imprese che non scalano, del debito pubblico che incombe. 

Ma finché i politici continueranno a fare passerella, i banchieri a fare i saggi custodi dei debiti, ed i padroni del vapore a difendere il proprio orticello, l’Italia resterà sospesa tra promesse vuote e mediocrità conclamata.

Un vero peccato. 

Finché non affronteremo questa ferita strutturale,  finché non capiremo  che un mercato azionario più grande non è un lusso, ma una necessità per un Paese moderno, continueremo a galleggiare tra promesse e mediocrità, sospesi tra il passato del risparmio difensivo ed un futuro incerto, con il sorriso dei prudenti come unico segnale di vitalità.

Umberto Baldo

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