4 Dicembre 2025 - 9.34

Lo psicodramma italico quando si parla di difesa

Umberto Baldo

Immagino vi sarete accorti che la parola “sicurezza” è diventata una di quelle più presenti nella nostra vita, direi quasi in modo ossessivo.

Le Assicurazioni ci propongono “sicurezza del futuro”, le ditte produttrici di sistemi di allarme ci garantiscono sicurezza per le nostre abitazioni, e siamo arrivati all’abuso di questo termine anche in campi del tutto estranei, come gli assorbenti femminili, e anche maschili in caso di perdite.

Sì senza dubbio la parola “sicurezza” è diventata centrale nel dibattito pubblico italiano per diverse ragioni, tra cui anche la percezione di un aumento di criminalità, degrado urbano ed immigrazione.

Questo ha portato ad un uso politico del termine, sia nel senso di una richiesta di protezione da parte dei cittadini, sia come oggetto di strategie comunicative per affrontare le loro preoccupazioni. 

La sicurezza è un argomento fondamentale, considerato sia un diritto di tutti i cittadini, sia una responsabilità collettiva. 

Dato questo clima uno sarebbe portato a pensare che le preoccupazioni coinvolgessero anche la sicurezza dello Stato da eventuali aggressioni esterne.

Ma qui casca l’asino.

Perché in perfetta linea con l’individualismo che ci contraddistingue, la sicurezza di fatto per noi si ferma sull’uscio di casa o sulle strade adiacenti, ma non comprende lo Stato, “aaa Nnnaaaazzzzziiooone” come la chiamano i nuovi Patrioti.

Ne abbiamo già parlato, ma a fronte di certe decisioni dei nostri partner europei su aumento degli organici delle forze armate, di adeguamento dei sistemi d’arma,  anche di reintroduzione della leva, scopriamo che siamo il popolo più “pacifista del mondo”. 

In Italia la parola “difesa” non evoca mai ciò che dovrebbe evocare: sicurezza, responsabilità, realismo.

No. Da noi scatena puntualmente uno psicodramma collettivo.
Pronunci “forze armate” e si apre un dibattito in cui si mescolano paure ataviche, vecchie ideologie, moralismi da salotto, e tanta tanta ipocrisia.

È un tratto quasi antropologico del nostro Paese: vogliamo vivere in pace, purché siano gli altri a garantirla.

Per decenni, spiegare questa idiosincrasia era semplice: c’erano i comunisti da un lato e i cattolici dall’altro. 

Mondi lontani, certo, ma accomunati da un’ostilità quasi epidermica verso una discussione non ideologica sulla difesa nazionale.

I primi vedevano nella NATO una longa manus dell’imperialismo Usa; i secondi cercavano nella non violenza una scorciatoia morale per evitare il tema della forza.
Il risultato? Un Paese in cui l’esercito era tollerato, ma solo se silenzioso e invisibile, una specie di servizio civile in uniforme.

Ma il vero convitato di pietra è il Fascismo.
La retorica guerresca di Mussolini, il culto della violenza, la follia imperialista: tutto ciò ha lasciato un segno profondo. 

Oggi, basta pronunciare la parola “difesa” perché si accenda l’allarme rosso: “Attenzione, rischiamo di tornare ai balilla!”. 

È un riflesso pavloviano che paralizza il ragionamento.

Paghiamo ancora un passato che abbiamo dimenticato, ma che continua a condizionarci.

Detto questo, siamo sinceri: l’Italia non è un Paese pacifista. 

È un Paese che ama fingersi tale.
Siamo pacifisti a condizione che la sicurezza la paghino gli altri.

Settant’anni sotto l’ombrello NATO hanno fatto scattare un meccanismo perverso: noi ci sentiamo moralmente superiori perché  ”ripudiamo la guerra”,  e “non crediamo nella forza”, ma intanto beneficiamo ogni giorno della forza degli altri.

È un pacifismo a cottimo, dove la coscienza costa zero e la protezione l’hanno fornita per ottant’anni gli Stati Uniti o chi per loro. Una forma aggiornata della nostra antica arte dell’arrangiarsi.  

E per di più c’era chi manifestava contro le basi Usa e Nato in Italia.

C’è poi un fattore culturale, più profondo: gli italiani hanno una paura viscerale della guerra. Non una paura filosofica, non un rifiuto ragionato della violenza. Proprio paura.
È la reazione di un Paese che ne è stato travolto due volte nel Novecento, senza mai capire fino in fondo cosa fosse successo.

Così, ogni discussione sulle dotazioni militari suscita la stessa ansia che proverebbe uno a cui propongono un controllo cardiaco: “Ma non è che c’è qualcosa che non va?”.
Investire in difesa viene percepito come l’annuncio di una guerra imminente, non come il modo di impedirla.

La deterrenza è un concetto quasi esoterico per il cittadino medio: per molti, se compri un radar, è perché vuoi bombardare qualcuno.

Il risultato è che l’Italia è uno dei pochi Paesi europei che non possiede una cultura strategica.
Abbiamo militari preparatissimi, missioni all’estero eccellenti, ma nessuna narrazione politica che spieghi ai cittadini il ruolo della difesa in un mondo instabile.

E così, quando si parla di aumentare la spesa militare o ammodernare gli armamenti, il dibattito nazionale si divide tra:  chi urla all’imminente svolta autoritaria,   e chi sospetta che gli F-35 servano per attaccare Marte.

In mezzo, una minoranza silenziosa che sa che senza difesa non c’è sovranità, e senza sovranità la pace dura finché un altro te la garantisce.

L’illusione del neutralismo italiano si fonda su un grande equivoco: crediamo che la pace sia una condizione naturale, una specie di diritto climatico.
Invece la pace è un bene che si difende. E chi non lo capisce, di solito finisce per scoprire la guerra dalla parte sbagliata.

L’Italia continua a immaginarsi come una riserva indiana di buoni sentimenti, un Paese che non vuole disturbare nessuno, e che quindi pensa che nessuno disturberà lui.
Ma il mondo non funziona così da un pezzo.

E i Paesi che si fingono neutrali, alla fine, diventano dipendenti, fragili, vulnerabili. 

Come gli Svizzeri ben sanno, la neutralità funziona solo per chi è capace di difenderla.

E noi, al momento, non lo siamo.

Oggi viviamo uno scenario globale complicato, e questa nostra autoillusione ci rende più vulnerabili che mai.
Eppure, ogni volta che si prova a sollevare il tema,  grazie anche ai numerosi arruffapopoli “pacifinti” presenti nei Partiti, il Paese reagisce come se avessero toccato un nervo scoperto: un misto di paura, sensi di colpa storici e moralismi buoni per la domenica pomeriggio.

Finché non avremo il coraggio di superare questi blocchi, continueremo a raccontarci la favola del neutralismo, mentre altri decidono per noi.

Perché la verità è semplice: non avere una difesa forte non significa essere più buoni, significa solo essere più deboli.

Umberto Baldo

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