Il gioco truccato: perché in Italia si cambia la legge elettorale solo quando conviene

Umberto Baldo
Non si erano ancora spente le trombette dei recenti ludi elettorali che, puntuale come il temporale di Ferragosto, nel Centrodestra è subito spuntata la tentazione di rimettere mano alla legge elettorale.
Perché aspettare il 2027?
Meglio correre, si sa mai che arrivi il momento in cui le urne non regalano più i soliti sorrisi.
Ora, capiamoci: la democrazia non è solo votare.
Se bastasse infilare una scheda in un’urna avremmo la democrazia pure in Russia, dove si vota sì… purché gli avversari non disturbino.
Non è un caso che Putin tenga gli osservatori internazionali alla larga: sono sempre così “impiccioni” quando vedono gli altri candidati, soprattutto i meno “allineati”, sparire dai radar.
Eppure, per quanto il voto non sia l’unico ingrediente, senza elezioni una democrazia semplicemente non c’è.
E le elezioni funzionano solo se c’è una cosa basilare: regole comuni, meglio se accettate da tutti.
Le chiamiamo Legge elettorale.
Argomento tecnico, astruso? Roba da iniziati, da appassionati? Forse.
Ma non possiamo far finta che non esista, perché è quella legge che decide chi entra in Parlamento, come e perché.
In pratica traduce i voti in seggi. Non sarà poesia, ma è potere.
Tutti i Paesi democratici hanno una legge elettorale; eppure in nessuna democrazia evoluta si cambia così spesso come da noi.
La cosa, da sola, dovrebbe farci riflettere sul livello del nostro “progresso” istituzionale.
Da un lato, nel mondo libero le regole elettorali hanno una certa solidità.
Gli Stati Uniti vanno avanti da due secoli e mezzo con lo stesso impianto; il Regno Unito usa, più o meno, le regole del 1885; altre democrazie europee si sono aggiornate una volta, massimo due, in corrispondenza delle grandi riforme costituzionali.
La Germania, dal dopoguerra, non ha mai cambiato sistema elettorale. Tre quarti di secolo.
In Italia, invece, è sport nazionale: una mezza dozzina di riforme in 30 anni.
Ogni maggioranza si innamora della propria idea di “governabilità”, guarda caso sempre a ridosso delle urne, sempre con la sottile ansia che il colore del proprio scranno possa scolorire alla prossima tornata elettorale.
Domani entrerò nel merito della discussione politica attuale.
Oggi vorrei partire da un’osservazione spiazzante nella sua banalità.
Se state giocando un torneo di briscola rispettando le regole, come vi suonerebbe vedere il giocatore in difficoltà alzarsi in piedi e imporre di cambiarle a partita in corso?
Vi arrabbiereste? Scommetto di sì.
Ecco: il problema è tutto qui.
Stampatevi bene in mente questo concetto: tutte le riforme elettorali italiane, una dopo l’altra, vengono presentate dai Partiti che le propongono come strumenti per “migliorare la governabilità”.
Una balla colossale, una bugia cosmica.
Le riforme spuntano sempre quando chi governa teme di perdere il potere alle elezioni successive.
È autoconsapevolezza politica versione italiana: se vinco va tutto bene, se rischio di perdere va cambiato il regolamento.
Lo capisce anche un bambino che questo continuo armeggiare con le regole è un gioco opaco, quando non apertamente sporco; furbizia di bassa lega, roba da maneggioni di retrobottega politico.
Una volta almeno qualcuno ebbe l’onestà (diciamo così) di dirlo.
Nel 2006, Calderoli – padre del “capolavoro” di allora – confessò candidamente in tv che la sua legge era una “porcata”.
E infatti da quel giorno si chiamò Porcellum.
Non capita spesso che gli autori diano da soli il nome alla propria opera.
Molti pensano che una legge elettorale riguardi solo chi vince e chi perde.
Magari fosse così. In realtà decide anche che tipo di Parlamento avremo: se fatto di rappresentanti liberi, scelti dagli elettori, o di nominati fedeli al Capo.
Perché se il Parlamentare deve il proprio seggio a chi lo vota, può permettersi di rispettare il divieto di mandato imperativo sancito dalla Costituzione.
Ma se il suo futuro dipende esclusivamente dagli umori del Capo, la musica cambia: mi inchino, obbedisco, resto zitto.
E questo influisce in modo diretto sulla qualità della politica.
Nel primo caso serve gente che si misura col territorio, che conosce la società di cui vuole essere voce.
Nel secondo caso bastano fedeltà e disciplina.
E così i leader diventano “Capi supremi” che parlano a slogan, non primus inter pares capaci di federare.
Il risultato lo vediamo da anni: classi politiche formate non nelle scuole dei Partiti (perché i Partiti veri non esistono più), ma negli studi televisivi, nella pubblicità, nel marketing; personaggi palesemente non all’altezza del ruolo, con l’unico obiettivo di essere riconfermati.
Gente che impara in fretta il mestiere più richiesto: quello del gregario del Conducător, che in cambio ti piazza nella lista bloccata.
Già, le liste bloccate: l’apoteosi del Partito-Capo.
Il cittadino vota il simbolo, ma la scelta dei Parlamentari è già decisa altrove.
Risultato: verticismo, carriera politica controllata dall’alto, fedeltà premiata, libertà punita.
Poi ci si sorprende dell’astensionismo.
Perché il cittadino, quando pensa di contare qualcosa nella scelta di chi lo rappresenta, magari va a votare. Quando capisce che è tutto già deciso a Roma, preferisce il mare.
E ha pure ragione.
Io ho sempre pensato che i Padri Costituenti avrebbero dovuto blindare la legge elettorale con maggioranze qualificate, così da impedirne l’uso come giocattolo nelle mani della maggioranza del momento.
Perché la legge elettorale, se ci pensiamo, non è della destra o della sinistra: è di tutti.
Ed è questo il punto: le regole del gioco democratico non appartengono al giocatore che sta vincendo, ma ai cittadini che devono poter giocare domani, dopo e sempre.
Umberto Baldo













