La Danimarca vuole salvare il pianeta… ma intanto nel suo regno si continuano a macellare balene e delfini

(P.U.) C’è qualcosa di irresistibilmente surreale nel parlare di piano green danese mentre, a poche centinaia di chilometri da Copenaghen, nel Regno di Danimarca si svolgono ancora le celebri — e sanguinose — mattanze di balene pilota e delfini nelle Isole Faroe.
Un rito “tradizionale”, ci tengono a precisare le autorità locali, che ogni anno dipinge fiordi interi di rosso e lascia gli osservatori esterni a interrogarsi su come una delle nazioni più progressiste del mondo possa accettare che, sotto la propria corona, si continui a uccidere grandi cetacei con i coltelli mentre altrove si predicano decarbonizzazione e sostenibilità.
Se si volesse essere maligni, si potrebbe dire che il Regno di Danimarca abbatte emissioni con la stessa determinazione con cui le sue dipendenze autonome abbattono delfini.
E per chi pensa che la contraddizione non basti, val la pena ricordare che la Danimarca, fino a pochissimi anni fa, era anche una delle capitali europee delle perforazioni petrolifere nel Mare del Nord. Solo nel 2020 ha annunciato la graduale chiusura dell’industria del greggio e del gas — una decisione storica, certo, ma che arriva dopo decenni di trivellazioni che hanno alimentato crescita e bilanci pubblici.
Insomma: un paese che oggi si vanta di correre in bicicletta verso la neutralità climatica, ma che per buona parte della sua storia recente è andato avanti grazie al petrolio, mentre nei suoi territori continua una delle pratiche più contestate al mondo in materia di tutela degli ecosistemi marini.
Le Isole Faroe non fanno parte dello Stato di Danimarca ma del più ampio Regno di Danimarca, insieme a Groenlandia e Danimarca continentale. Godono di una autonomia molto ampia, che affida al governo faroese quasi tutte le competenze interne, tra cui pesca, ambiente e gestione dei cetacei: per questo la Danimarca non può vietare direttamente la mattanza di delfini e balene. Tuttavia il governo danese, pur senza poteri legislativi sulla pesca faroese, potrebbe comunque intervenire in modo indiretto, esercitando pressioni politiche e diplomatiche, usando leve economiche e commerciali che dipendono dal Regno, sollevando il tema nella politica estera, aderendo a convenzioni internazionali che richiedano restrizioni sulla caccia ai cetacei o introducendo standard sul benessere animale validi per l’intero Regno. Un intervento forte, però, rischierebbe di incrinare gli equilibri con un territorio che rivendica da anni una forte autonomia e che minaccia periodicamente un percorso verso l’indipendenza.
Danimarca, obiettivo clima più ambizioso del mondo occidentale
Ironie a parte, l’annuncio di questa settimana è di quelli che fanno rumore: Copenaghen punta a ridurre le emissioni dell’82% entro il 2035, rispetto ai livelli del 1990.
Un traguardo più alto di quello del Regno Unito (81%) e molto più avanzato rispetto alla forbice europea, che oscilla tra il 66,3 e il 72,5%.
L’obiettivo non è solo simbolico. Gli scienziati ripetono da anni che non basta impegnarsi a raggiungere lo zero netto entro il 2050: ciò che conta è quando e quanto si taglia prima del 2040. Troppi governi stanno rimandando gli sforzi alla fine del decennio critico, e rischiano, anche con ottimi obiettivi finali, di produrre comunque troppo inquinamento lungo il percorso.
È per questo che la mossa danese spicca nel panorama europeo, dove negli ultimi due anni la tendenza dominante è stata un’altra: arretrare.
Quote verdi ridimensionate, norme allentate, nuove leggi ambientali diluite, tutto mentre si continua a proclamare il proprio amore per la sostenibilità.
Un’Europa che rallenta mentre la Danimarca accelera
Mentre i ministri dell’UE si riuniscono in Brasile per la Cop30, il blocco europeo appare indebolito:
- il Green Deal è stato colpito da una serie di revisioni al ribasso;
- il Parlamento europeo ha annacquato la direttiva contro la deforestazione;
- il PPE ha votato insieme all’estrema destra su questioni ambientali, rompendo equilibri storici e ridisegnando la maggioranza che guiderà l’Europa fino al 2029.
Eppure, l’UE ha appena approvato un nuovo obiettivo per il 2040: -90% di emissioni, con un margine del 5% copribile tramite crediti di carbonio internazionali. Una flessibilità che molti scienziati contestano, ma che consente all’Unione di presentarsi alla Cop con qualcosa in mano — più di quanto stiano facendo Stati Uniti e Cina, che continuano a evitare impegni stringenti.
Il paradosso danese: leader del clima, regno di contraddizioni
Che la Danimarca sia oggi uno dei paesi più avanzati al mondo sul fronte della decarbonizzazione è un dato di fatto.
Che questo primato conviva con:
- l’esistenza del Grindadráp,
- la storia recente di trivellazioni offshore,
- e un traffico marittimo tra i più intensi del Nord Europa,
è una contraddizione che in molti non fanno fatica a sottolineare.
Tuttavia Copenaghen insiste: il percorso è avviato, il piano è concreto e la transizione sarà accelerata.
E se il resto dell’Europa frena, la Danimarca sembra determinata a non aspettare nessuno — neanche i suoi stessi territori autonomi che, almeno per ora, continuano a remare in senso opposto sulle acque del Nord Atlantico.













