11 Novembre 2025 - 9.13

Aaa Naaazziiooone contro l’Europa ostaggio dei lillipuziani

Come si prendono le decisioni nella vostra famiglia?
Immagino si discuta, si valutino i pro e i contro, e alla fine si arrivi — in un modo o nell’altro — ad una conclusione. 

Non credo si proceda per votazioni formali fra favorevoli e contrari: il buon senso suggerisce che, dopo aver sviscerato il problema, le posizioni di chi ha la “forza economica”, cioè dei genitori che tengono in piedi la baracca, tendano a prevalere.

In altre parole : non serve l’unanimità.

La stessa logica, con le dovute proporzioni, vale in qualunque altra organizzazione: un Comune, una società per azioni, perfino per l’elezione del Capo dello Stato, dove basta una maggioranza qualificata.
Eppure, quando si parla di grandi Istituzioni Internazionali, ci ostiniamo a pensare che debbano funzionare secondo regole diverse dal buon senso. 

Così, nell’Unione Europea, in fase di costituzione (e poi di allargamento) si è scelto a suo tempo il principio dell’unanimità: tutti d’accordo, oppure niente.

Col passare del tempo, la sfera delle decisioni prese a maggioranza qualificata si è  un po’ allargata, ma restano ancora troppi settori nei quali è richiesta l’approvazione di  ogni  singolo Stato membro.
Tra i più delicati figurano la politica estera e di sicurezza comune, dove ciascun Paese vuole mantenere voce in capitolo e potere di veto. 

Basta un solo “no” — quello di Budapest, Varsavia o Nicosia — per bloccare tutto.
E non parliamo di quisquilie: si tratta di sanzioni, riconoscimenti internazionali, azioni militari o impegni diplomatici che toccano il cuore stesso della politica estera europea.

Lo stesso principio vale per l’ingresso di nuovi Stati membri, per la politica fiscale, per il diritto di famiglia, per la lotta alla criminalità organizzata, per la cittadinanza europea.

Altre materie soggette all’unanimità riguardano  la difesa dello stato di diritto, la promozione delle non-discriminazioni, del mercato dei capitali, della politica fiscale e delle sue conseguenze per l’ambiente e l’energia, delle missioni della Banca centrale europea, della sicurezza sociale e della salute,
In questi campi, l’unanimità viene vista come una sorta di garanzia di sovranità: nel senso che ogni Paese può dire “no” se ritiene minacciato un proprio interesse vitale. 

Peccato che, nella pratica, questo si traduca in un formidabile freno a mano tirato sul futuro dell’Unione.

È evidente che il diritto di veto è ormai un retaggio del passato. 

Oggi blocca l’agilità decisionale di un’Europa che deve muoversi in un mondo dove le crisi si succedono con la velocità di un tweet. 

È assurdo che gli interessi di 450 milioni di europei possano restare ostaggio del calcolo politico di un Paese grande quanto una provincia italiana.

Facciamoci questa domanda: è logico che il voto di Cipro (un milione di abitanti) o di Malta (mezzo milione) pesi quanto quello di Germania, Francia, Italia o Spagna?
Chiunque abbia un briciolo di buon senso risponderebbe con un sonoro “No”.

L’Unione Europea non è più quella dei sei Paesi fondatori: oggi dovrebbe comportarsi come una Confederazione, se non come una Federazione, almeno per le decisioni che riguardano l’interesse comune — la politica estera, la difesa, la sicurezza energetica.
Invece continuiamo a procedere come un condominio litigioso, dove un singolo inquilino può bloccare il riscaldamento di tutti.
E così l’Europa resta un “nano politico” sulla scena mondiale, costretta a inseguire gli umori e gli interessi altrui per difendere i propri, ed in definitiva la propria libertà.

Eppure un’occasione per cambiare c’era.
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva spinto per far aderire l’Italia al gruppo dei “Paesi amici del voto a maggioranza”, lanciato nel 2023 da Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Slovenia e Spagna.
Un passo avanti, sembrava.
Ma poi è arrivata la doccia fredda: Giorgia Meloni, nel recente dibattito in vista del Consiglio europeo, ha dichiarato che non è favorevole ad allargare il voto a maggioranza nelle istituzioni Ue.
Motivo? Potrebbe essere utile per l’Ucraina, ha detto, ma su altri temi la maggioranza potrebbe esprimere posizioni “distanti dai nostri interessi nazionali”. 

E la sua priorità resta “difendere gli interessi della Naaazziiooone”.

Risultato: l’Italia si ritrova in compagnia della Repubblica Ceca, della Slovacchia e dell’Ungheria di Orbán — gli stessi Paesi che da tre anni ostacolano o bloccano il sostegno dell’Ue a Kiev, abusando proprio del diritto di veto.
Paesi che, diciamolo pure, si comportano da parassiti: prendono i soldi di Bruxelles, ma difendono gli interessi di Putin, sputando sul piatto dove mangiano.
Agiscono per demolire dall’interno il funzionamento dell’Unione, a danno non solo dei nostri interessi, ma di quelli collettivi che dovrebbero unire i popoli europei secondo il principio della cooperazione leale.

E poi, siamo sinceri: con economie ormai intrecciate come mai prima d’ora, quali sono questi “interessi nazionali” così unici da meritare la protezione di un veto?
Il mondo corre, e noi restiamo fermi a difendere il passato con slogan da comizio.

La verità è che una riforma interna dell’Ue non è più rinviabile, tanto più se si vuole arrivare a 32 o 35 membri.
E la revisione del diritto di veto è il primo passo per non essere schiacciati tra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Cina di Xi Jinping.
Speravo che la premier avesse compiuto quel salto culturale necessario per capire dove va il mondo.
Invece no: l’eco degli “interessi deaaaa Nazziiioooone” ci riporta indietro di un secolo, a riprova che  certe incrostazioni ideologiche non si superano facilmente.
E mentre noi recitiamo la parte dei “furbi”, il resto d’Europa rischia di diventare il vaso di coccio tra due imperi.

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