Panchine rosse, scarpe e hashtag: il grande rituale ipocrita italiano dell’indignazione a basso costo

Di Alessandro Cammarano
Ogni autunno, in Italia, scoppia un piccolo Giubileo della coscienza civile: panchine rosse inaugurate con fascia tricolore, scarpe rosse allineate sui gradini dei municipi, mostre, convegni, marce, hashtag, flash-mob. Una coreografia collettiva che si rinnova a ogni novembre e a ogni 8 marzo, quando i Comuni — centinaia, da Nord a Sud — si affrettano a “fare la loro parte”. Ma quanta sostanza resta sotto la vernice? E perché, mentre le istituzioni si moltiplicano in gesti simbolici, la cultura popolare e digitale continua a veicolare messaggi di disprezzo e violenza contro le donne?
È un cortocircuito tutto italiano: il Paese delle panchine rosse che nello stesso tempo ascolta e celebra testi che descrivono le donne come oggetti da usare, comprare, possedere o punire.
Le panchine rosse nascono nel 2014 a Torino, in memoria di una donna uccisa dal compagno. Da allora si sono diffuse ovunque, fino a diventare marchio e obbligo morale. Oggi ne esistono migliaia, censite da associazioni e comuni. In parallelo, il 25 novembre e l’8 marzo si contano oltre 1.500 iniziative pubbliche: spettacoli, letture, murales, incontri nelle scuole, campagne di sensibilizzazione.
Tutto bene, si direbbe, ma la fotografia d’insieme è più amara. Non esiste una mappatura nazionale delle installazioni, né un monitoraggio dell’impatto reale di queste iniziative. I centri antiviolenza — circa 360 in tutta Italia — lavorano spesso al limite delle risorse, con finanziamenti regionali intermittenti. E i numeri restano implacabili: secondo i dati ISTAT e del Servizio Analisi Criminale, nel 2024 sono state uccise oltre 100 donne, quasi tutte da partner o ex partner; ogni giorno arrivano in media 80 chiamate al numero verde 1522; una donna su tre, nel corso della vita, ha subito una forma di violenza fisica o psicologica.
Ovunque si scrive e si grida “Mai più”, ma la macchina istituzionale continua a procedere a singhiozzo.
Dietro la retorica dei simboli si nasconde spesso un meccanismo rassicurante: l’atto pubblico di espiazione collettiva. Si vernicia la panchina, si pubblica la foto, si organizza l’evento; si costruisce una narrativa di impegno che non costa troppo, né politicamente né economicamente.
È il paradosso della “performatività della memoria”: la celebrazione della consapevolezza che sostituisce il cambiamento. Una sorta di estetica del cordoglio, che funziona bene nelle foto di gruppo ma non intacca i bilanci comunali, dove le voci per i centri antiviolenza o per la formazione nelle scuole restano marginali.
Nel frattempo, la cultura quotidiana continua a riprodurre gli stessi schemi di potere: pubblicità ammiccanti, programmi televisivi che ironizzano sulle vittime, e — soprattutto — musica pop e trap che parlano alle generazioni più giovani, normalizzando un linguaggio di possesso e sottomissione.
Il caso Tony Effe dello scorso anno è stato emblematico. Artista di punta della scena trap italiana, è stato invitato a al grande concerto di Capodanno organizzato dal Comune di Roma al Circo Massimo; poi, a seguito delle proteste per i suoi testi esplicitamente misogini e violenti, l’invito è stato revocato.
Apriti cielo: una valanga di reazioni indignate, accuse di censura, solidarietà da parte di colleghi e, paradossalmente, di molte artiste donne.
Nessuno pretende processi morali o roghi purificatori, ma la domanda resta: com’è possibile che chi proclama “Stop alla violenza sulle donne” difenda a spada tratta chi costruisce il proprio successo su versi che la banalizzano?
L’episodio ha mostrato con chiarezza la doppia morale dell’industria culturale: le stesse etichette discografiche che sponsorizzano campagne contro la violenza di genere finanziano artisti che ne fanno il linguaggio della loro poetica. E il pubblico, nel frattempo, si divide tra chi si indigna per un giorno e chi continua a cantare quei testi a memoria.
Sui social, intanto, l’orrore gira libero: video che ridicolizzano le vittime, meme sessisti, commenti che colpevolizzano chi denuncia.
Gli algoritmi, interessati solo all’engagement, premiano la polarizzazione: e la libertà d’espressione diventa spesso un paravento per la libertà di umiliare.
Mentre si moltiplicano le campagne simboliche, mancano le politiche strutturali.
I centri antiviolenza chiedono fondi stabili, non bandi a scadenza. Le scuole chiedono percorsi educativi continui, non incontri spot una volta l’anno. Le donne che denunciano chiedono procedure rapide, non labirinti giudiziari che finiscono per scoraggiarle.
Eppure, anche laddove l’educazione arriva, c’è un nodo culturale che raramente viene affrontato: le madri maschiliste, quelle che crescono figli maschi come “piccoli re”, giustificando ogni comportamento con l’argomento del “sono ragazzi”. Quelle che dicono alle figlie di non provocare, ma ai figli di “farsi rispettare”. Quelle che tramandano, spesso inconsapevolmente, l’idea che l’uomo abbia diritto a un margine d’arroganza e di dominio e la donna al dovere di sopportare.
È un tabù scomodo, perché rompe la narrazione rassicurante di una società divisa in vittime e carnefici. Ma la cultura patriarcale non è un virus che colpisce solo gli uomini: vive anche nelle parole, nelle abitudini, nei silenzi di chi educa.
E finché non si avrà il coraggio di parlarne — nelle famiglie, nelle scuole, nelle parrocchie, nei talk televisivi — ogni panchina rossa continuerà a essere il monumento a un lutto annunciato.
Il rosso delle panchine e delle scarpe resterà importante solo se riuscirà a sporcarsi di realtà. Se diventerà simbolo di un impegno politico, economico e culturale continuo. Se servirà a misurare non quante panchine si inaugurano, ma quante donne si salvano, quanti percorsi di uscita dalla violenza si aprono, quante mentalità cambiano.
Altrimenti resterà la vernice dell’ipocrisia: il colore brillante con cui copriamo la superficie, mentre sotto, come sempre, il sangue continua a scorrere.













