7 Novembre 2025 - 9.22

Il mio palato è plebeo. Ma libero

Umberto Baldo

Lo dico coram populo, senza paura di sembrare un barbaro del gusto, a costo di sembrare persino un iconoclasta;  per me il tartufo ed il caviale potrebbero anche smettere di venderli domattina.

Non ne sentirei la mancanza.

So già che a qualcuno verrà da ridere, o peggio da storcere il naso: “ma che razza di plebeo!”. 

Ebbene sì: plebeo, ma sereno. 

Perché ho scoperto che la libertà, anche quella del palato, è una forma di felicità.

Cosa volete, per quanto mi sia sforzato  varie volte, annusando le “trifole”, di percepire i sentori descritti dagli appassionati, che vanno  dall’aglio al sottobosco, dai funghi al cioccolato, dal miele alle nocciole, dal muschio alla vaniglia, sarà sicuramente una mia carenza, ma io ho un’unica percezione.

Il tartufo, diciamolo, ha un odore che per me ricorda più il gas che il bosco. 

E non venitemi a dire che “è l’aroma terroso, complesso, persistente”: no, per me sa di gas, punto.

Ma non di un gas qualunque: gas metano.  

Per cui, celiando un po’, se volessi “tartufizzare” qualche pietanza, potrei metterla vicino al tubo del gas…. e voilà il piatto è servito!
Il caviale? 

In Veneto diremmo che puzza “da freschin”. 

Non di mare, ma di frigorifero un po’ stanco. 

E ogni volta che qualcuno mi racconta che “ha sentori iodati e una persistenza elegante”, io penso che, forse, l’unica cosa elegante sarebbe ammettere che il sapore e l’odore non sono per niente gradevoli.

Ci ho provato, più volte, forzando la mia ritrosia, con entrambe le specialità.
Mi ricordo una cena importante, di quelle dove il cameriere arriva con la bilancina digitale per pesare il tartufo, come un farmacista dosa una medicina.

Affetta, sparge scaglie invisibili sul piatto, e tutti sospirano estasiati. 

Io invece pensavo: “Ma se me ne cade un pezzetto nel piatto, lo devo raccogliere col cucchiaino o chiamare i Carabinieri?”.
Poi arriva il caviale, servito in una ciotolina su un letto di ghiaccio, e ti guardano con aria solenne, come se stessi per ricevere la comunione. 

Io l’ho assaggiato. Una volta, due, tre. Niente. Sempre lo stesso sapore: “freschin “di mare fermo.

E già che ci siamo,  confesso sempre coram populo che anche per  le ostriche crude provo le stesse sensazioni. 

Le ho provate — con il limone, senza limone, anche quelle di Saint Malo in Bretagna, con la faccia convinta — ma niente da fare.
Ogni volta mi sembrava di leccare una forchetta lasciata una notte in mare.
Sarà un mio limite, ma se devo sentire l’odore dell’oceano preferisco passeggiare in spiaggia, non masticarlo.

E così ho capito una cosa semplice: non è un problema di palato, è un problema di sincerità.
Ci sono sapori che non ti appartengono. 

E fingere di apprezzarli, solo perché “fa fine”, è come applaudire un concerto stonato solo perché tutti lo fanno.

Forse il punto è che tartufo e caviale non si mangiano: si esibiscono.
Sono l’equivalente gastronomico di un orologio d’oro o di una borsa griffata. 

Non si tratta di gusto, ma di status. 

Il loro valore non sta nel piacere, ma nel far sapere che puoi permetterteli.
E questo, consentitemi, non ha niente a che fare con la cultura del cibo.

Io resto affezionato ai sapori veri, quelli che profumano di casa e di memoria:   una frittata con le cipolle, il pane caldo con una fetta di mortadella, il “musetto” con purè,  la trippa, el baccalà alla vicentina, la sardèa in saor che ti lascia l’alito di verità.
Sono sapori che non devi decifrare con il vocabolario dei sommelier, perché li riconosci al primo morso: ti parlano di domeniche semplici, di famiglie sedute attorno alla tavola, di nonne che cucinavano “a occhio”, ma non sbagliavano mai.

Viviamo in un tempo in cui anche il cibo è diventato spettacolo.
Non si mangia: si fotografa, si posta, si giudica. 

Si parla di “esperienza sensoriale” mentre si spende una fortuna per assaggiare qualcosa che, se fosse servito al bar sotto casa, verrebbe mandato indietro con un “xe freddo” oppure “el spùssa”.
Eppure, basta una fetta di salame buono o un piatto di bigoli all’anatra per ricordarci che il gusto è la più democratica delle libertà: o ti piace, o non ti piace. 

Senza ideologia, senza certificazioni.

E allora sì, lo rivendico: il mio palato sarà pure plebeo, ma almeno è libero.
Non devo convincermi che qualcosa è buono solo perché costa caro o lo dice una guida stellata.
Per me il sapore della verità sta in un piatto povero, ma sincero.

Viva la semplicità. Viva la cucina che non fa scena ma compagnia.
E viva chi, a tavola come nella vita, non ha bisogno di sniffare un tartufo per sentirsi raffinato.

Umberto Baldo

PS: magari qualcuno si aspettava un rigetto anche dello champagne a favore delle “bollicine “ nostrane. Ma su questo tema non posso intervenire, perché astemio da sempre.

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