Dal fiume al mare… ma per il Darfur nessuno marcia

Umberto Baldo
Mi piacerebbe tanto chiedere ad uno di quei ragazzi o ragazze che scandiscono nei cortei “Palestina dal fiume al mare”, che occupano le Università, che impediscono a persone perbene come Emanuele Fiano di esprimere le proprie opinioni in quanto ebreo, se sanno dove sia il Darfur.
Ovviamente questa domanda non la rivolgerei a coloro che a volto coperto, sempre invocando “Palestina libera”, si lasciano andare a ogni forma di violenza urbana. Quelli non manifestano: sfogano istinti, non idee.
Mi riferisco invece ai giovani che credono sinceramente di stare dalla parte giusta della storia, ma che spesso non hanno idea di dove si trovino i luoghi e le motivazioni profonde per cui s’indignano.
Con la mia domanda non chiedo che conoscano la storia del Sudan o i retroscena geopolitici: mi basterebbe che sapessero almeno dove si trova.
Ma temo che, con la geografia ridotta nella nostra scuola a “materia Cenerentola”, se mettessimo loro una carta geografica davanti, si limiterebbero a guardarla come si guarda un QR code scaduto.
Eppure proprio lì, mentre in Europa si dibatte di slogan e di microfoni negati, si consuma uno dei più atroci massacri del nostro tempo; in Darfur oggi, non si grida “libertà” davanti alle telecamere: si muore.
Si muore sotto il fuoco dei paramilitari delle Forze di Supporto Rapido (Rsf), guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti.
Ad El Fasher, la capitale del Darfur Settentrionale, 260mila civili, metà dei quali bambini, sono prigionieri di un assedio che dura da diciotto mesi.
Le Rsf rastrellano casa per casa, uccidono, violentano, bruciano i villaggi e chiamano “falangayat” — schiavi — gli africani delle tribù locali.
Da quelle parti ogni giorno è un “7 ottobre”, con stermini di massa e stupri usati per realizzare disegni di pulizia etnica.
Le immagini satellitari raccolte dallo Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale mostrano mucchi di cadaveri ammassati accanto ai mezzi militari, e villaggi ridotti in cenere.
Gli osservatori internazionali parlano apertamente di crimini contro l’umanità,forse di genocidio.
Risultato: 150.000 morti, 14 milioni di profughi, mezzo milione di bambini morti di fame.
E nessuno — nessuno — si inginocchia per loro.
La guerra civile sudanese è iniziata nel 2023, ma chi se n’è accorto?
Forse perché in Sudan non ci sono telecamere, non c’è un hashtag virale, non c’è un nemico come Israele comodo da insultare sui social.
Il massacro del Darfur non divide tra buoni e cattivi: divide solo tra vittime ed indifferenti.
E noi, Europa compresa, stiamo tutti nella seconda categoria.
L’Unione Europea si è detta “profondamente preoccupata”.
Le Nazioni Unite hanno approvato l’ennesima risoluzione.
E poi?
Poi il nulla. Gli aiuti non arrivano, i corridoi umanitari restano chiusi, e le milizie continuano a massacrare civili con le armi pagate dagli Emirati Arabi Uniti — gli stessi con cui firmiamo contratti per gas e turismo.
Ma torniamo ai nostri “Campus indignati”, dove la bandiera palestinese è diventata un lasciapassare morale per sentirsi dalla parte giusta.
Vorrei chiedere a quei ragazzi che gridano “Palestina libera” se sanno chi sono i Janjaweed, le stesse milizie che vent’anni fa fecero del Darfur un cimitero, e che oggi hanno solo cambiato nome.
Vorrei chiedere loro se sanno che a El Fasher si stanno ripetendo gli stessi orrori del 2004, con donne stuprate, villaggi bruciati e bambini lasciati morire di fame.
Ma temo che, anche se glielo raccontassi, non li scuoterei.
Perché il Darfur non è di moda, e fa parte di un sistema di guerre dimenticate, combattute ai margini del mondo civilizzato, dove l’orrore non genera più notizia, e la compassione si spegne appena esce dal nostro campo visivo.
Il Darfur non è Instagrammabile, non è utile alla narrativa, non c’è una Flotilla che possa raggiungerlo via mare forzando blocchi navali.
Ormai ci si indigna a corrente alternata: solo quando la tragedia è politicamente redditizia.
Tornando sempre alla mia domanda iniziale, forse se chiedessi a quei ragazzi dov’è il Darfur, mi risponderebbero che non lo sanno.
Ma non ne farei loro una colpa personale.
Ne darei piuttosto la responsabilità ad un’epoca distratta, che confonde la conoscenza con l’emozione del momento, la solidarietà con il post condiviso, la coscienza civile con il rumore della piazza.
E così, mentre i cortei si moltiplicano, i tamburi battono slogan, ed i Rettori cercano un equilibrio tra ordine pubblico e libertà d’espressione, in Africa si continua a morire nel silenzio più totale,in Ciad, in Nigeria, in Congo, in Somalia, in Burkina Faso…. come in Sudan.
Forse basterebbe un po’ più di geografia — ed un po’ più di onestà — per capire che non si può piangere per Gaza e restare indifferenti per El Fasher.
Che non ci sono morti di serie A e morti di serie B, ma solo esseri umani.
E che la libertà, se vale qualcosa, non si misura a chilometri nel Mediterraneo, ma “Dal fiume… fino al Darfur”.
Umberto Baldo













