Economia non osservata: l’arte tutta italiana di non vedere

Umberto Baldo
Certo che, quanto al conio di eufemismi, noi italiani non abbiamo rivali.
Riusciamo a trasformare ogni magagna in una formula accattivante, ogni porcheria in un’espressione neutra e quasi poetica.
Scorrendo le news, l’altro giorno, mi imbatto in un articolo che parla di “economia non osservata”.
Una meraviglia linguistica.
Le meningi cominciano subito a girare a mille: cosa mai si nasconderà dietro questa perla del dizionario burocratico?
Una rapida visita al sito dell’Istat e la verità emerge, chiara come la nebbia in Val Padana: per “economia non osservata” si intendono tutte quelle attività economiche che, per mille motivi, non risultano direttamente rilevabili degli Organi preposti dello Stato.
Tradotto in lingua umana: tutto ciò che si fa di nascosto, senza dichiararlo.
Dentro ci finisce di tutto: aziende che non rispondono ai questionari, chi sbaglia i dati “per errore”, chi pensa che la fattura o lo scontrino siano degli optionals, chi lavora in nero, chi traffica illegalmente, chi produce in casa e chi vive di contratti “di cortesia”, chi spaccia stupefacenti, chi gestisce la prostituzione od il contrabbando.
Un’enciclopedia dell’arte di arrangiarsi.
Caspita ragazzi, quanta fatica per non dire la cosa più semplice del mondo: l’“economia non osservata” è quella che abbiamo sempre chiamato “economia sommersa”, o, per quanto mi riguarda, più brutalmente, “economia criminale”.
Perché, diciamocelo, chi si sottrae agli obblighi di legge — che si tratti di evasione fiscale o di traffici illegali — non è un furbetto del quartierino: è un ladro e un criminale.
E non ruba allo Stato, ma a quai cittadini che le tasse le pagano fino all’ultimo centesimo.
L’Istat, come impone la legge, ha pubblicato i dati sull’economia non osservata poco prima della legge di bilancio.
E, puntuale come una tassa, è arrivata la doccia fredda: l’illegalità in economia è aumentata.
Nel 2023, rispetto all’anno precedente, l’economia non osservata cresce di 15,1 miliardi di euro, pari al +7,5%.
L’economia sommersa, quella “legale ma invisibile”, arriva a 198 miliardi, mentre le attività illegali sfiorano i 20 miliardi.
I lavoratori irregolari? Oltre 3 milioni e 100 mila, in aumento di 145 mila unità. Un esercito.
Il tutto mentre a reti unificate ci raccontano che “l’Italia è ripartita”.
Sì, forse verso il baratro.
Ma non serve spulciare i dettagli, basta guardare il totale: 217 miliardi di economia non osservata.
Roba da Repubblica delle banane!
La ciliegina sulla torta?
Questa economia “non osservata” viene inclusa nel calcolo del PIL, e quindi contribuisce alla “crescita”.
Ecco spiegato l’arcano: in Italia persino l’illegalità fa PIL (in realtà è prassi comune in tutti Paesi della Ue).
Altro che Made in Italy, dovremmo brevettare il “Made in Irregolare”.
Ora, che il fenomeno sia antico quanto la Repubblica lo sappiamo tutti.
Ma con il primo Governo di destra, che fa di “ordine e legalità” il suo mantra quotidiano, uno si aspetterebbe un’inversione di rotta.
E invece no: l’economia sommersa ed il lavoro nero sono ancora in crescita.
Allora viene il dubbio: che l’“ordine e legalità” valgano solo per i poveracci e per chi non ha santi in paradiso, mentre per gli altri il motto resta quello di sempre; “fai i soldi e non ti preoccupare”.
E così, mentre a Roma si litiga su una manovra da 18 miliardi (spalmati, si intende, su bonus, micro-interventi e promesse elettorali), 217 miliardi di economia “non osservata” scorrono sereni, con tanto di benedizione statistica.
“Non osservata” da chi?
Dal Fisco? Dalla Guardia di Finanza?
O, più verosimilmente, da una classe politica che vede benissimo, ma preferisce chiudere un occhio, o entrambi, per non disturbare gli amici di sempre, o le categorie “vicine politicamente”.
Nel frattempo, i contribuenti italiani si dividono in tre categorie, come le Cantiche della Divina Commedia: quelli troppo ricchi per essere tassati, a cui lo Stato si rivolge con tanto di “permesso, scusi, disturbo?” (leggasi: banche, grandi Gruppi e Multinazionali); quelli troppo poveri per valere la pena di essere tassati, che sopravvivono tra un bonus ed una social card, come in una versione moderna della carità pelosa; poi ci sono loro, i “kulaki”, i nuovi ricchi da 35mila euro lordi l’anno, quelli che pagano per tutti e tengono in piedi la baracca.
Un cittadino su due non paga un euro di IRPEF, chi paga, invece, paga per due.
La pressione fiscale reale supera il 42%, roba da Paesi scandinavi, ma senza l’ombra dei loro servizi.
Siamo la Svezia delle tasse, ed il Burkina Faso dei servizi.
E tutto questo in un Paese dove ogni parte politica difende con zelo la propria parrocchia di elettori: chi tutela gli evasori per “non soffocare l’impresa”, chi difende i sussidi per “non lasciare indietro nessuno”.
E alla fine, indietro, restano solo quelli che pagano davvero.
Il risultato è un cocktail esplosivo: tasse alte, servizi scadenti, evasione alle stelle, ed uno Stato che “non osserva” non per mancanza di mezzi, bensì di volontà politica.
Un sistema che già scricchiola, e che rischia di crollare.
Non è un caso se il Presidente Mattarella ha ricordato che “chi paga per tutti rischia di essere sempre più povero”.
E mentre il capo dello Stato lancia l’allarme, i nostri politici fanno spallucce e si interrogano sull’ennesimo rimpasto.
Alla fine, la vera tragedia è che Pantalone, quello che ancora regge la baracca, ha smesso di credere.
Prima ha smesso di votare, ora forse smetterà anche di pagare.
E quando anche lui si stuferà, della Repubblica di Pulcinella non resterà più nemmeno la maschera: solo il conto da saldare.
Umberto Baldo













