Dal Marocco al Madagascar: soffia il vento di rivolta della Gen Z

Umberto Baldo
Per anni ci hanno raccontato che il Marocco fosse il Paese più tranquillo del Maghreb.
Niente primavere arabe, niente rivoluzioni, niente piazze incendiarie.
Un regno solido, con il mare e lunghe spiagge per i turisti, i resort per i ricchi, ed il silenzio per tutti gli altri.
Poi, una notte di alcuni giorni fa, in una cittadina satellite di Agadir chiamata Leqliaa, centinaia di ragazzi tentano di assaltare una caserma della Gendarmeria.
Tre di loro muoiono sotto i colpi della polizia.
E di colpo ci si accorge che sotto le palme ed i campi da golf c’era un magma ribollente.
Il Marocco era la vetrina del “nuovo ordine arabo”: strade perfette, treni ad alta velocità, il Mondiale del 2030 con Spagna e Portogallo come fiore all’occhiello.
Peccato che mentre si costruivano gli stadi, gli ospedali restavano senza anestetici, e le scuole sfornavano disoccupati a catena.
La Generazione Z marocchina ha deciso che non basta vivere in un Paese dove i turisti tedeschi passeggiano beati lungo spiagge dorate: vuole vivere in un Paese giusto.
Il loro movimento ha perfino un nome internazionale: GenZ 212, il prefisso del Marocco.
Non chiamateli rivoltosi, chiamateli piuttosto centralinisti della realtà: hanno alzato la cornetta e ricordato al palazzo reale che non si può governare un Paese a due velocità — quello dei resort e quello delle periferie in fiamme.
Naturalmente il governo promette dialogo, il Re parla di inclusione, e gli Imam predicano calma.
Ma intanto le farmacie bruciano, i supermercati della famiglia reale vengono presi a sassate, ed Amnesty International chiede un’inchiesta sull’uso eccessivo della forza.
Ed i venti di rivolta dopo Agadir hanno soffiato su Marrakech, Rabat, Tangeri e Casablanca.
Il Marocco si era illuso di essere un’oasi.
Ma le oasi, a volte, bruciano più in fretta del deserto che le circonda.
Il Marocco in realtà non è un caso isolato.
In altre parti del mondo, anche lontane fra loro, il mondo giovanile ribolle.
In Nepal, la protesta contro il divieto dei social media è diventata in 48 ore una rivoluzione: 22 morti, centinaia di feriti ed un governo rovesciato.
In Madagascar, i giovani protestano per la mancanza d’acqua e di elettricità, e chiedono le dimissioni di un Presidente in carica da troppo tempo.
In Perù, la miccia è stata una stretta alle pensioni varata per risanare il bilancio, lasciando però intatti i privilegi di una classe politica molto distante dal Paese reale. Così oggi le piazze chiedono la testa della presidente Dina Boluarte, che ha un consenso pari al 2,5%.
Da Kathmandu a Lima, passando anche per il Kenia, l’Indonesia e le Filippine la Generazione Z ha smesso di aspettare che qualcuno la rappresenti.
Non si fida più dei Partiti, non crede più ai Governi, non si riconosce in un sistema che distribuisce bonus e parole, ma non opportunità.
Come ha detto un analista, questa generazione “si sente imbrogliata”.
E non serve un grande sociologo per capire perché: è cresciuta fra la crisi del 2008, la pandemia, l’emergenza climatica e la precarietà.
Si è vista promettere un mondo aperto e globale, e si ritrova con le frontiere chiuse ed i prezzi alle stelle.
La differenza rispetto ai movimenti del passato è che questi ragazzi non hanno leader, e forse non ne vogliono.
Non c’è più il Che Guevara da mettere sui poster, ma un server Discord o un gruppo TikTok.
In Marocco, il canale “GenZ 212” è passato da 3.000 a 130.000 membri in pochi giorni: un clic, ed è piazza.
È il nuovo modo di ribellarsi: organizzazione orizzontale, comunicazione istantanea, ed un messaggio che attraversa i confini in tempo reale.
In Madagascar, la protesta digitale “Gen Z Mada” è partita su Facebook, poi ha coinvolto i Sindacati.
E quando un movimento giovanile riesce ad unire classi e generazioni diverse, smette di essere solo “una cosa da ragazzi” e diventa qualcosa di molto più grande.
Ecco la vera novità: questi giovani si guardano, si studiano, si copiano.
Vedono che in Nepal un governo è caduto, e pensano: “Perché non qui?”.
È un contagio politico che passa da smartphone a smartphone, da un Paese all’altro.
C’è chi la chiama “rivolta”, chi “disperazione”, chi “idealismo”.
Io direi che è semplicemente una generazione che non accetta più di essere condannata a vivere peggio dei propri genitori.
E che, di fronte alla sordità del potere, ha deciso di alzare la voce.
Noi, gli adulti, abbiamo costruito un mondo che produce più rabbia che speranza.
Abbiamo confuso la stabilità con la rassegnazione, e la crescita con l’ingiustizia ben amministrata.
Adesso quella generazione, nata con uno smartphone in mano ed un futuro in bilico, ci presenta il conto.
Il Marocco forse è solo l’inizio.
Perché la vera rivoluzione non è contro un Re, un Presidente od un Ministro.
È contro l’idea che il futuro sia diventato un privilegio e non un diritto.
E quando milioni di ragazzi – da Kathmandu ad Agadir, da Antananarivo a Lima – gridano che il futuro non si ruba, beh… forse è il caso di spegnere per un momento le nostre televisioni ed ascoltarli.
Prima che siano loro, stavolta, a cambiare canale.
Ed in quest’ottica forse conviene alzare lo sguardo oltre lo Stretto di Gibilterra, perché la realtà, ironia della storia, dovrebbe ricordarci che i problemi non fanno rumore finché non scoppiano.
E quando esplodono, non bastano le palme di Agadir a coprire le fiamme di Leqliaa.
Noi, in Europa, fingiamo di non sentire quel crepitio che arriva dal sud.
Ci raccontiamo che sono “fatti loro”, che qui c’è la democrazia, la stabilità, il welfare.
Ma oggi le piazze non esplodono per ideologia: esplodono per mancanza di futuro.
Le manifestazioni per Gaza di questi giorni, confuse forse, ma dense di rabbia compressa, sono un segnale (esclusi ovviamente gli incappucciati, Black block, e maranza, che sono solo delinquenti).
Sono un battito sordo sotto l’asfalto.
Perché la gioventù che marcia per le nostre strade non è solo solidale con la Palestina, che fino a poco fa non sapeva neppure dove fosse: è stanca, esclusa, invisibile.
E se il vento del Maghreb attraverserà il mare, non porterà solo sabbia.
Porterà una domanda che nessuno, né a Rabat né a Roma, potrà più evitare: fino a quando si può chiedere pazienza a chi non ha più speranza?
Quando la sabbia prende fuoco, non brucia solo il deserto, brucia tutto ciò che abbiamo creduto solido.
Anche noi.
Umberto Baldo













