La Flottiglia delle discordie: tra ideali, propaganda e fratture interne

Umberto Baldo
Nella storia, nessuna grande flotta è mai stata immune da difficoltà, e persino da clamorose disfatte. Il pensiero corre subito all’Invencible Armada, che partì dalla Spagna per conquistare l’Inghilterra e finì spazzata via da una tempesta.
Certo il Mediterraneo non è l’Atlantico, e una moderna nave, anche piccola, offre garanzie di sicurezza infinitamente superiori a un vascello del Cinquecento. Ma il mare resta il mare, e gli equipaggi, per quanto spinti da grandi ideali umanitari, sono pur sempre composti da uomini e donne, con le loro individualità, convinzioni e pregiudizi.
Ecco perché non sorprende che la Global Sumud Flotilla, la grande missione umanitaria diretta a Gaza, proceda tra tensioni interne e difficoltà esterne.
Un esempio?
La delegazione salpata da Barcellona, rimasta per oltre dieci giorni bloccata tra Sidi Bou Said e Biserta.
Alla base del ritardo, due episodi controversi: granate incendiarie sganciate da droni non identificati su due barche della Flotilla. Le autorità tunisine, però, hanno lasciato intendere potesse trattarsi di razzi di segnalazione lanciati inavvertitamente dagli stessi natanti della missione.
Non meno significativo il caso di Greta Thunberg. L’ecoattivista svedese ha scelto di rinunciare al proprio ruolo nella missione, pur restando a bordo e nel comitato organizzativo, a causa di divergenze sulla comunicazione: secondo alcuni troppo centrata sulla Flotilla, al punto da oscurare quanto avviene nella Striscia. Alla fine, Greta si è limitata a lasciare la barca dei “Capi” per trasferirsi su un’imbarcazione più piccola.
Ben più serio appare invece l’episodio del 16 settembre, quando Khaled Boujemâa, coordinatore tunisino della missione, ha annunciato le proprie dimissioni.
Secondo quanto riportato da Le Courrier de l’Atlas, Boujemâa ha spiegato così la sua decisione: «Ci hanno mentito sull’identità di alcuni dei partecipanti in prima linea nella Flottilla, accuso gli organizzatori di averci nascosto questo aspetto”.
Ritengo questo caso più serio perché va al di là di personalismi, e mostra una presa di posizione netta, che ha rivelato divergenze profonde tra attivisti che dovrebbero condividere un unico obiettivo.
Al centro della polemica, la presenza a bordo di Saif Ayadi, che si definisce “attivista queer”.
La frattura si è approfondita poche ore dopo, quando anche Mariem Meftah, altra militante tunisina, ha diffuso un messaggio di dissociazione: “L’orientamento sessuale di ognuno è una questione privata […]. Ma essere un attivista “queer” significa toccare i valori della società e intraprendere un percorso che rischia di mettere i miei figli e i miei cari in una situazione che rifiutiamo. Mi rifiuto di offrire a mio figlio un cambio di sesso a scuola. Non perdonerò coloro che ci mettono in questa situazione; dovremo parlarne perché ad alcune persone piace oltrepassare la linea rossa o l’hanno già oltrepassata. Invito tutti a riparare l’errore commesso contro le persone che hanno donato il loro sangue affinché questa Flottilla possa vedere la luce del sole”.
Il messaggio è stato ampiamente condiviso sui social, generando reazioni contrastanti: tra chi ha sostenuto la posizione di Meftah e chi l’ha criticata per la sua natura esclusiva.
Non c’è da stupirsi. Le divergenze interne non sono nuove, ma confermano la fragilità di certe alleanze nel mondo dell’attivismo internazionale.
Per alcuni, la presenza di attivisti LGBTQ+ a bordo della Flotilla rappresenta un tentativo di inserire nella causa palestinese una dimensione universale dei diritti civili. Per altri, come mostrano le dimissioni di Boujemâa, significa invece confliggere con visioni religiose e culturali tradizionali.
Il Medio Oriente, del resto, non è l’Europa dei Gay Pride; è terra islamica.
Boujemâa e Meftah interpretano la causa palestinese come prima di tutto una causa musulmana, inscindibile dalla sua dimensione spirituale e religiosa. Una realtà che, piaccia o no, si accompagna a pratiche brutali: Hamas da anni perseguita, tortura e uccide gli omosessuali, che cercano rifugio proprio in Israele.
Fra difficoltà a bordo, tensioni politiche e propaganda la Flotilla continua comunque il suo viaggio.
Per arrivare dove?
Questo è il punto. La mia opinione l’ho già espressa nel pezzo del 5 settembre (https://www.tviweb.it/sumud-flotilla-quando-la-politica-diventa-una-regata-ideologica/). L’obiettivo vero, legittimo, sia chiaro, per me non è tanto consegnare le 250 tonnellate di aiuti caricati sulle barche (una goccia nel mare dei bisogni), quanto restare in mare il più a lungo possibile, catalizzando l’attenzione delle opinioni pubbliche europee.
Ogni giorno in più significa propaganda filo palestinese e soprattutto anti-israeliana.
Sulle reali possibilità di sbarcare a Gaza, credo siano pari a zero.
Israele lo ha ribadito con chiarezza.
Il Ministero degli Esteri ha postato su X: «Questa flottiglia, organizzata da Hamas, è destinata a servire Hamas. Israele non permetterà alle imbarcazioni di entrare in una zona di combattimento attiva e non consentirà la violazione di un blocco navale legittimo. Se il reale intento dei partecipanti alla flottiglia è quello di fornire aiuti umanitari e non servire Hamas, Israele invita le imbarcazioni ad attraccare alla Marina di Ashkelon ed a scaricare lì gli aiuti, da dove saranno trasferiti prontamente in maniera coordinata nella Striscia di Gaza».
Invito respinto dai leader della Flotilla, che parlano di “trappola” e ribadiscono lo slogan: “Non ci fermeranno”.
Non sono kamikaze, ma è evidente che un eventuale intervento duro della marina israeliana, magari con il coinvolgimento di parlamentari italiani imbarcati, rappresenterebbe un colpo propagandistico enorme per la causa pro-Pal e per l’antisemitismo internazionale.
Il ministro Tajani, da New York, ha dichiarato di aver discusso con il collega israeliano Gideon Sàar, chiedendo garanzie per i cittadini italiani che fanno parte della Flotilla.
E’ evidente che di più non si può fare, per cui resta da augurarsi che nessuno, in un delirio pro-Palestina, arrivi a pensare che l’Italia debba addirittura dichiarare guerra a Israele, scortando la Flotilla con la Marina Militare, e violando il blocco navale.
Umberto Baldo













