Donald Trump porta acqua al mulino della Cina

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Umberto Baldo
Le dinamiche della geopolitica mondiale stanno subendo un’accelerazione imprevedibile, con prospettive e sbocchi attualmente nemmeno immaginabili.
Chi poteva pensare, solo qualche mese fa, che al confronto con Donald Trump, quella sfinge di Xi Jinping finisse per risultare più simpatico?
Ed è così per colpa del Tycoon, perché fra lui che, con baldanza e senza peli sulla lingua, ai suoi sodali di Partito riferisce di “Capi di Stato disposti a tutto, anche di baciargli il culo, pur di trovare un’intesa sui dazi”, ed uno Xi che pacatamente ricorda che la Cina ha i mezzi per difendersi e si difenderà, la percezione è quella di trovarsi ad un confronto fra un buzzurro incivile ed il Principe di Metternich.
Certo quando si parla di politica, e di avversari politici in particolare, la simpatia dovrebbe essere messa un po’ da parte, ma purtroppo siamo tutti uomini, ed un conto è sedersi al tavolo con un villano provocatore che cerca di “tirartelo in c….” mettendo sul tavolo la propria forza, ed un altro con un soggetto che magari anche lui cerca di farsi i cazzi suoi, ma lo fa con gentilezza e rispetto.
Badate che non ne faccio solo una questione di stile, anche se lo stile conta.
Il problema è che Trump tratta gli alleati, e gli Europei in particolare, come fossero clienti morosi.
Li insulta, li minaccia, li ricatta.
Nelle sue parole l’idea stessa di “alleanza” viene sostituita da una logica da bazar: “o pagate, o vi lasciamo soli davanti a Putin”.
Questa non è leadership, è bullismo!
Guardate che scrivo questo con grande tristezza, perché da liberal-democratico ho sempre visto negli Stati Uniti la culla della libertà e della democrazia, la realizzazione concreta delle rivoluzioni del Settecento, e mi spiace vederli governati da quella che assomiglia sempre più ad una banda di gangster privi di qualsiasi conoscenza di economia e di finanza.
Ma fare politica vuol dire pensare, riflettere, valutare i pro e i contro di qualsiasi scelta; esattamente il contrario dell’impressione che si ha osservando come si muove il Presidente Usa, con decisioni che paiono improntate all’imprevedibilità ed alla discontinuità strategica.
Durante il suo primo mandato, Trump ha messo in discussione il valore della Nato, definendola “obsoleta”, e ha minacciato il disimpegno militare qualora gli alleati europei non aumentassero la spesa per la difesa. Una logica transazionale, dove i legami storici vengono subordinati a calcoli di breve periodo. Oggi, il suo entourage torna a ventilare la possibilità di lasciare l’Ucraina al suo destino, se l’Europa non “paga abbastanza”. Messaggi che minano profondamente la fiducia nella solidità dell’Alleanza Atlantica (e guardate che la fiducia una volta persa è difficile riconquistarla).
In parallelo, la Cina ha adottato una strategia paziente e mirata, fatta di investimenti infrastrutturali (la “Belt and Road Initiative”), cooperazioni tecnologiche e penetrazione nei mercati europei, in particolare dell’Est.
Paesi come Ungheria, Serbia e Grecia hanno già rafforzato i loro rapporti economici con Pechino, mentre altri membri dell’Ue, Germania in primis, hanno mantenuto per certi versi una posizione ambigua, stretti tra pressioni americane e interessi industriali di Pechino.
Quello che mi colpisce è che la riduzione dell’impegno strategico americano sembra interessare un po’ tutto il mondo.
A noi europei, alleati storici, ha imposto dazi del 20% (ora sospesi), e così costringerà molti grandi Gruppi industriali ad aumentare significativamente gli investimenti in Cina, rafforzando rapidamente le capacità di ricerca e produzione nel Paese asiatico, così intensificando i legami economici.
Nella regione Asia-Pacifico, gli Stati Uniti non hanno mai fatto entrare in vigore il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (TPP-11), un accordo commerciale tra Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Regno Unito, Singapore e Vietnam (il ritiro degli Usa avvenne dopo l’elezione di Trump nel 2016).
Questa decisione spinge Paesi come Giappone, Corea del Sud, Australia, Singapore e Vietnam ad accelerare la promozione di accordi commerciali con la Cina, rafforzando ulteriormente la posizione di Pechino nell’architettura economica regionale.
È particolarmente rilevante notare come Giappone e Corea del Sud, tradizionalmente orientati verso la leadership economica americana, stiano ora cercando maggiore stabilità economica avvicinandosi con decisione alla Cina, di fronte all’incertezza delle politiche americane.
Ma Trump ha chiaramente diminuito il proprio impegno per la sicurezza anche in Medio Oriente, spingendo alleati tradizionali come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ad intensificare la collaborazione con la Cina in settori come energia, infrastrutture e sicurezza.
Apparentemente Trump tenta di avvicinare la Russia (affossando l’Ucraina) per contrastare la Cina, ma in realtà sta ottenendo l’effetto opposto: vista la stretta cooperazione economica e strategica sino-russa, questa politica rende gli Usa meno affidabili agli occhi del mondo, e accentua l’affidabilità e l’attrattiva della Cina come partner globale, spingendo gli storici alleati americani nelle braccia di Pechino.
Tornando a noi Europei, piaccia o no, se Trump continuerà su questa strada, non è che ci siano molte alternative.
Senza un ombrello di sicurezza americano, senza una vera difesa comune, senza una politica estera autonoma, il Vecchio Continente finirà per cercare appoggi dove li trova. E Pechino, con il suo pragmatismo freddo e i suoi miliardi, è sempre pronta a riempire i vuoti lasciati da Washington.
E’ comprensibile che oggi a Pechino protestino, ma in realtà si sfregano le mani, perché pensano ai danni che il Presidente americano sta infliggendo alla credibilità del suo Paese.
«La classe dirigente cinese pensa che l’atteggiamento della nuova amministrazione possa aiutare il loro Paese», ha scritto Martin Wolf sul Financial Times.
A meno di augurabili resipiscenze, credo che siamo solo all’inizio di questo sconvolgimento, e stavolta mi sbilancio; nel senso che sono convinto che arriverà un momento in cui gli Usa e la Cina chiameranno a raccolta i propri possibili alleati, e allora si vedrà veramente come il mondo è cambiato. E sarà allora che gli Usa chiederanno a noi europei se siamo disponibili ad entrare in un blocco anti-cinese.
Concludendo; Trump urla contro la “Cina cattiva” che ruba tecnologia e influenza il mondo?
Benissimo. Sapevamo che lo scontro reale alla fine sarebbe stato fra Washington e Pechino.
Ma poi impone dazi anche agli europei, mina la fiducia degli alleati, si ritira dagli accordi internazionali, e tratta i partner come nemici.
E’ come voler spegnere un incendio con la benzina.
Ma così facendo, Trump non sta rendendo l’America più forte, come crede o si illude.
Sta solo rendendo il mondo più ostile.
E sta costringendo l’Europa, per disperazione più che per convinzione, a cercare in Cina quel che non trova più negli Stati Uniti: continuità, affidabilità, strategia.
Il risultato? Un ordine mondiale che si de-occidentalizza sempre di più.
E in gran parte grazie a Donald Trump, che si presenta come il salvatore dell’Occidente, ma rischia in realtà di esserne il becchino, con buona pace dei sovranisti nostrani come Giorgia Meloni.
So già che molti staranno dicendo: ma Trump mercoledì ha sospeso i dazi per 90 giorni. Vero, ma non pensiate che lo abbia fatto per un’improvvisa crisi di bontà; in realtà non poteva reggere a lungo il crollo delle Borse e dei Treasury.
Ma ricordate che il vulnus ai rapporti fiduciari con alleati e resto del mondo c’è stato; e nessuno lo dimenticherà.
Questo è il vero disastro provocato da Trump; aver fatto capire all’universo mondo che degli Usa, del dollaro, e dei Treasury bond, da oggi si può e si deve diffidare.
Umberto Baldo
PS: il tonfo di Wall Street di ieri, che inaspettatamente ha seguito il boom di mercoledì, dimostra inequivocabilmente che dei dazi all’Europa ai mercati “non gliene può frega’ de meno”. La partita vera è con la Cina, e la Borsa, che è la longa manus delle aziende, si è accorta che i dazi reali imposti a Pechino (145%) alla fine rendono insostenibili le produzioni in Usa, ormai dipendenti da anni dalle catene di fornitura cinesi ed asiatiche. Se aggiungete che i Mercati si sono poi resi conto che gli Usa sono fortemente scoperti anche sul fianco del debito, con una parte consistente in mano straniera, il risultato non può essere che una volatilità estrema, che continuerà fino a che non ci sarà un nuovo accordo mondiale sul commercio, che detti regole accettate da tutti. “Campa cavallo che l’erba cresce”.













