Carlo Calenda riesuma un vecchio grande arnese: il Congresso
di Umberto Baldo
Sicuramente non è un caso se Carlo Calenda per lanciare sull’arena nazionale il suo partito “Azione” ha scelto la forma più tradizionale di dialettica politica, che rimanda ad altri tempi, quella del Congresso.
Che mette di colpo fuori gioco le agorà virtuali, i tweet, la messaggistica social, per ritornare all’antico, quando c’erano migliaia di militanti che erano disposti a recarsi magari a Roma, per confluire in un teatro, in un palazzetto dello sport, per passare due o più giorni a ragionare di politica, a parlare di futuro, a confrontarsi su idee e posizioni anche diverse.
No non è un caso, perchè con questa scelta Calenda ha voluto mandare un preciso messaggio, rispolverando il più classico dei metodi di fare politica, caduto ormai in disuso in conseguenza dell’imporsi di partiti chiusi, oligarchici, personali.
In questo modo Calenda ha mandato il messaggio che “Azione” è fatta di uomini e donne in carne ed ossa, una comunità in cui non tutti la pensano allo stesso modo, ma in cui tutti hanno una visione comune, spiazzando gli altri Partiti, costringendoli così ad un’attiva partecipazione con i loro leader in qualità di ospiti.
Non temete, non ho intenzione di imporvi una valutazione politica del primo Congresso nazionale di Azione.
Quello che mi interessa è il contenitore, appunto il congresso, e di questi tempi di populismo dilagante è già tanta roba.
Perchè, comunque la si pensi, il Congresso di un partito è l’antidoto al personalismo dei leader.
E non pensiate sia un caso che i partiti attuali siano sempre più refrattari ai congressi, perchè nel bene e nel male si tratta di un momento di confronto dialettico sulla situazione politica, un momento in cui il leader deve convincere migliaia di suoi compagni delegati della bontà delle sua linea politica, un momento in cui vengono votati i nomi delle persone chiamate agli organi dirigenziali del Partito.
Checchè se ne dica erano fasi di discussioni interna, a volte aspra, sulle diverse linee politiche, sulle molteplici visioni che fisiologicamente sono presenti in tutte le formazioni politiche, che spesso inevitabilmente portavano alla fase della “conta” tra le diverse anime interne, con l’approvazione di documenti finali alternativi.
Questa è a mio avviso la vera differenza fra l’ieri e l’oggi dei Partiti.
Allora, quando si facevano i congressi, era normale che gli stessi si concludessero, come accennato, con documenti finali differenziati, che venivano chiamati senza paura “di maggioranza” e “di minoranza”.
E non è che non ci fossero leader carismatici ed ingombranti anche allora, tipo Craxi o de Mita.
Ma la politica non era stata ancora infettata dal virus del populismo, e di conseguenza nessun leader, per quanto dominante, si sarebbe minimamente sognato di mettere in dubbio la legittimità della dialettica interna, la legittimità di avere idee diverse, e di poterle scrivere in un documento da far votare al congresso.
Il vero effetto del populismo nei Partiti di oggi sta proprio nel fatto che non sono ammesse diversità di opinioni, considerate quasi inconcepibili, quasi eretiche, rispetto alla linea dettata dal “Capo”.
E’ un virus che si è diffuso anche in altre organizzazioni sociali, fra cui il Sindacato.
La conseguenza è che o i Congressi non si fanno più, e le polemiche in atto nella Liga veneta ne sono la palese dimostrazione, oppure addirittura si affida il dibattito interno alla consultazione on line degli iscritti su una piattaforma gestita da privati, come succede con il Movimento 5Stelle, oppure quando formalmente si fanno, lungi dal diventare uno scontro dialettico fra posizioni diverse, diventano talk show, passerelle di personaggi che spesso con il partito (o qualche sindacato di categoria) non c’entrano nulla.
Il perchè è evidente.
Facendo un solo esempio, se e quando si faranno i congressi della Liga veneta, mi gioco una mano che, oltre ai commissariamenti ormai non più accettabili, il tema dominante sarà l’autonomia regionale.
Volete che “Capitan Salvini” possa accettare vincoli congressuali, e magari documenti approvati dalla base dei militanti, su questo tema delicato, tipicamente “nordista”, che rischierebbe di mettere in difficoltà il suo progetto di “Lega Nazionale”?
Per non dire, allargando il campo, che i leader attuali non possono vedere di buon occhio eventuali documenti di “minoranze interne”, magari consistenti, che limitino il loro potere, che di fatto ha trasformato il Parlamento nel luogo in cui tutto è possibile, e dove l’unico limite è l’aritmetica dei numeri, che consentono di cambiare maggioranza giorno per giorno.
Ecco spiegata questa “allergia” ai congressi degli attuali laeder politici, che per certi versi fa il paio con una certa “allergia” anche alle elezioni!
Loro preferiscono le ratifiche su “Twitter” della loro azione politica, a cose fatte, piuttosto che un dibattito aperto, preventivo e vincolante.
Non pensate che questa mia difesa della pratica congressuale sia aprioristica.
Avendo frequentato la politica per lunghi anni so bene che non erano tutte rose e fiori.
So bene che anche quando si facevano i congressi c’era il “centralismo democratico” del Partito Comunista, ed i tesseramenti anomali dei partiti di Governo, legati spesso al voto di scambio.
Eppure, a mio avviso, i vantaggi superavano di gran lunga gli svantaggi!
Nessun laeder politico allora poteva decidere un grande cambiamento di linea politica (penso ad esempio ai cambi di maggioranza degli ultimi tre Governi, veri salti della quaglia) in solitudine, oppure con manovre di palazzo limitate a pochi ammessi ai cosiddetti “cerchi magici”, prescindendo da dibattiti e congressi che coinvolgessero l’intera base dei militanti, allora amplissima.
Tanto per fare due soli esempi, fu il Congresso della Democrazia Cristiana del 1963 che, grazie a Moro, aprì al primo governo di centrosinistra, oppure il Congresso del Midas che portò Bettino Craxi alla guida del Psi.
Ma così iscritti e militanti si sentivano protagonisti della vita del proprio partito, e non credo sia un caso che la caduta della democrazia interna sia alla base della riduzione dei partiti a “fantasmi” destinati a fare da “claque” al Capo di turno.
Ecco spiegato perché trovo azzeccata la scelta di Carlo Calenda di riesumare quel vecchio strumento di democrazia diretta che è il Congresso di partito.
Che prevede delegati, gente in presenza, che rinuncia ad un week end sulla neve per andare all’Eur di Roma, dormire magari in un alberghetto a buon mercato, attaccarsi un contrassegno sulla giacca, sedere in platea per applaudire o dissentire da quanto espresso dall’oratore di turno.
In fondo, se ci pensate bene, è la magia del Congresso, che però è anche la magia della democrazia nei partiti, conculcata dal populismo e dal leaderismo imperante.
Umberto Baldo