“Li o detto”… l’orrido analfabetismo da social e smartphone

di Alessandro Cammarano
All’epoca dei primi telefoni cellulari, quelli che prima erano un mattone usabile anche come arma impropria, gli SMS o messaggini che dir si voglia, non esistevano. Si poteva fare una conversazione di dieci minuti scarsi e poi la batteria paleo-litica si scaricava e bisognava attaccare il “coarèo” alla più vicina presa di corrente per un tempo che oggi sarebbe sufficiente a rifornire di carica un transatlantico ibrido. Poi fu la volta dei cellulari fighetti, quelli che stavano in tasca e si chiudevano come un portacipria da borsetta, con l’antennina estraibile e uno schermo sul quale non si visualizzava più solo il numero ma anche una serie di informazioni supplementari, come il nome dell’operatore e il livello della batteria, finalmente al litio – che essendo anche un farmaco da somministrare ai bipolari calmò i furori e le depressioni dei telefonodipendenti che si trovavano scarichi e prendevano a calci la cabina telefonica che avevano davanti, invece di usarla – e magari pure uno straccio di logo. Fu allora che fecero la loro comparsa i messaggini: all’inizio ottanta caratteri – roba che il primo Twitter in confronto era la Treccani – poi centosessanta, quasi la “Gerusalemme liberata”. L’esiguità delle battute –tanto per usare un termine giornalistico – costrinse gli utenti a notevoli sforzi di fantasia per condensare i concetti da esprimere nel minor numero di caratteri possibile. Iniziarono gli anglosassoni, che l’abbreviazione ce l’hanno nei cromosomi, com acronimi del tipo 4U – che sarebbe “for you”, ovvero “per te – o ME2, tanto per fare due esempi tra le centinaia possibili. Da noi quelli che in seguito si sarebbero chiamati Bimbiminkia – non necessariamente per ragioni anagrafiche perché la definizione comprende qualsiasi fascia d’età e non fa distinzione di censo e cultura – misero a punto una serie di agghiaccianti abbreviazioni che nel tempo sono diventate patrimonio corrente e in qualche caso accettato (orrore!) dall’augusta Accademia della Crusca. Si cominciò con il TVB – ti voglio bene – che in sé non è neppure brutto, dato il concetto che esprime, ma ben presto si deragliò su mostruosità lessicali da fare accapponare la pelle. La lettera K, assente dall’alfabeto italiano sin dall’Alto Medioevo – rifece la sua prepotente comparsa in sostituzione del CH, che si mangia due caratteri e fa perdere tempo e spazio. Si iniziò dunque a ripercorrere la via del primo Volgare – il padre dell’Italiano – tornando a scrivere alla maniera dei primi atti ufficiale della nostra lingua, ove la K era viva e vegeta. Da “Sao ke kelle terre…” del Placito Cassinese a “Sai ke kuello mi ha detto ke non ti ama più perké” il passo è tragicamente breve e accomuna tra storia della lingua e orrore grammaticale. E finalmente giunsero gli smartphone: schermi grandi e colorati, veri monitor interattivi, la magia del touchscreen le App e chi più ne ha più ne metta. Con questi magici – e oramai irrinunciabili – strumenti gli SMS sono stati definitivamente pensionati a favore delle applicazioni social, prima di tutte Whatsapp, che moltiplicano l’uso della “comunicazione” insieme ad un suo ulteriore svilimento. Il vantaggio del “ke” e del TVB stava nella loro innocua brevità…col senno del poi… Oggi i discorsi si fanno articolati e rivelano abissi di ignoranza. I “Li o detto” si sprecano, insieme al terrificante “tranquillo, tutto apposto” – che fa pensare al messaggio scritto da un addetto alle affissioni” o al “piuttosto che” usato a sproposito ed equivocandone il senso. La H del verbo “avere” sparisce e il becero di turno rivela di non conoscere la differenza tra ha o ho (con l’H!!!) e le congiunzioni. Il terrore corre sul filo anche perché se lo si fa notare, l’incolto risponde “ma tanto si capisce lo stesso”; qui si rimpiange di non avere un gatto a nove code a disposizione. L’apoteosi si raggiunge con locuzioni come “ce n’è” o “me ne…”: qui la fantasia perversa dei marchesi de Sade della scrittura da messaggio raggiunge cime altissime. Si va da “c’è n’è” a “me n’è vado” e giù giù fino a “t’è l’o dato”; roba da corte marziale. Che fare? Richiamare il vita, magari con un whatsapp, il Maestro Manzi, l’eroe che agli albori della televisione insegnava a leggere e scrivere ai molti italiani analfabeti non sarebbe una cattiva idea; magari gli facciamo fare una app.













