Tviweb alla Prima della Scala: fra mondanità e… stucco

Di Alessandro Cammarano
Alla prima della Scala c’è sempre un momento, pochi secondi sospesi tra il lampadario che respira e il brusio che smette di essere mondano per diventare liturgico, in cui capisci che non sei semplicemente a teatro: sei dentro un rito civile, un carnevale con lo smoking, una messa laica dove si consuma l’eterno matrimonio fra musica e rappresentazione sociale. Quest’anno il sacramento si celebrava nel nome di Šostakovič, con Lady Macbeth del distretto di Mzensk, opera che racconta di passioni, delitti, repressioni e colpe. Temi allegri, insomma. Perfetti per aprire la stagione, mentre fuori i flash scoppiettano e dentro il pubblico sfila come se la tragedia fosse già tutta in platea.
Perché la vera opera, alla prima, comincia molto prima dell’accordo iniziale. Inizia sul tappeto rosso, dove i VIP attraversano Milano come creature mitologiche smarrite tra due epoche. Favino, che potrebbe entrare anche in Boris Godunov senza cambiare passo, ha quell’aria da uomo che sa sempre cosa sta succedendo, anche quando non succede niente. Achille Lauro è ormai una categoria dello spirito: più che presentarsi, appare. Mahmood conferma il paradosso della modernità scaligera: essere pop è la condizione migliore per risultare contemporanei anche in un tempio ottocentesco. Giacomo Poretti, invece, è il vero eroe tragico della serata: l’unico che, con un sopracciglio, potrebbe commentare da solo l’intera liturgia meglio di qualsiasi recensione.
Ma sarebbe ingeneroso fermarsi ai noti. Alla Scala, come ogni anno, il vero spettacolo è il pubblico. O meglio: il costume. Non quello musicale – che è valido, severo, sovieticamente implacabile – ma quello sartoriale. Le signore della prima hanno ormai superato con slancio l’idea di “abito da sera” per approdare a una nuova frontiera dell’essere: il cosplay lirico-disneyano. Non più eleganza, non più haute couture, bensì identificazione narrativa. C’era Elsa di Frozen, riconoscibile non tanto dal ghiaccio quanto dalla determinazione con cui ignorava il libretto. Rapunzel, con capelli sufficientemente lunghi da poter scendere dal loggione. La strega di Ribelle, con sguardi e mantelli che promettevano anatemi ben più efficaci della censura staliniana. E poi fate, regine nordiche, sirene pronte a emergere dall’Atlantico dei Navigli: una scena che nemmeno Lucca Comics, ma con più champagne e meno autoironia.
A questo punto entra in gioco un altro capitolo essenziale del melodramma scaligero: la chirurgia plastica come codice estetico dominante, vero e proprio linguaggio non verbale della serata. Le fiabe, del resto, non vivono solo nei vestiti ma nei volti, scolpiti – letteralmente – dalla Fata del Botox, sovrana incontrastata di zigomi e labbra, regina di bisturi che governa Milano con la grazia di un muratore in trasferta.
Là dove una volta c’erano rughe, ossia biografie, oggi si estendono superfici tese e lucide, impermeabili al tempo ma vulnerabilissime al ridicolo. Espressioni eternamente sorprese, sorrisi protocollari, sopracciglia migranti verso la fronte alta: un catalogo di esiti spesso risibili, dove non francamente tragici.
In questo museo vivente dell’autoconservazione facciale spicca, ormai come un’installazione permanente, Milly Carlucci. Più che truccata, intonacata; più che ritoccata, rifinita a spatola. Il maquillage ha da tempo superato la soglia del cosmetico per approdare all’edilizia leggera: stucco da muro, tinte murali, finiture opache. Una scelta coerente, va detto, in un contesto dove il volto non è più superficie espressiva ma struttura portante. E così, mentre sul palco Šostakovič smaschera senza pietà le ipocrisie sociali, in platea si consuma una silenziosa gara a chi ne indossa di più, di maschere.
Alla fine, gli applausi sciolgono tutto: la tragedia russa, la mondanità lombarda, il gelo disneyano, l’intonaco emozionale. Si esce convinti di aver assistito a qualcosa di unico, vagamente assurdo, profondamente italiano. Del resto, la prima della Scala è l’unico luogo dove puoi passare, nel giro di pochi metri, da Šostakovič al Castello di Arendelle, con una deviazione edilizia sul volto di qualche celebrità, senza che nessuno trovi la cosa davvero strana. Forse è questo, anno dopo anno, il suo vero capolavoro.













