28 Luglio 2025 - 9.36

Tour- Giro-Vuelta. La magia del ciclismo.  Anche visto dalla poltrona

Umberto Baldo

C’è un momento, ogni anno, in cui mi accorgo che l’estate è davvero arrivata.
Non è il caldo, né il canto delle cicale.

È il suono della voce del telecronista che, a volume basso, accompagna il mio pomeriggio mentre il gruppo si inerpica su qualche salita con un nome che sembra uscito da un libro di scuola: Stelvio, Gavia, Tourmalet, Galibier,  Angliru, Lagos de Covadonga.

Accade ogni estate, da tanti anni. 

Prima il Giro d’Italia, poi il Tour de France, infine la Vuelta a España.

Un trittico che non è solo sport, ma parte del mio calendario affettivo, come i compleanni di famiglia o le feste comandate. 

E quando, seduto in poltrona, sento il rumore degli elicotteri sopra il gruppo e la grafica che mostra i distacchi, mi ritrovo bambino. Con la mia bici azzurra, il vento in faccia, le ginocchia sbucciate, e la fantasia che mi trasformava in Rik Van Looy mentre pedalavo lungo le strade del mio paese.

All’epoca non sapevamo nemmeno cosa fosse il carbonio. 

Le bici erano o Atala, o Torpado, o Bianchi o Legnano. 

Il cambio a tre rapporti della Campagnolo, quello della Shimano sembrava una magia. 

Ma bastava. Bastava per sognare.

Il ciclismo, in fondo, è sempre stato questo: un sogno che si fa strada sotto le ruote. 

Un sogno polveroso, faticoso, testardo. Ma vero.

Non ho mai avuto una bici professionale da corsa, né una maglia a pois  da leader degli scalatori.

Non ne ho mai sentito il bisogno.

Eppure il ciclismo è entrato nella mia vita in punta di piedi, restando fedele come certe canzoni che non si dimenticano. 

Quando vivevo a Padova, la bicicletta era il mio mezzo di trasporto principale. Con la pioggia, con il vento, anche con la neve. 

Era una “bici da viaggio” (come si diceva allora), con tanto di borse posteriori, comperata usata.  

Ma non per risparmiare; perché era stata fatta a mano per un medico.    

Lui l’aveva usata per quarant’anni per raggiungere e visitare i suoi pazienti, io scorrazzai per le strade di Padova per i successivi trenta, scegliendola appunto come unico mezzo per gli spostamenti in città (vedi foto).

E forse è lì che è nato tutto: nel gesto quotidiano del pedalare, in quel ritmo lento che ti mette in sintonia con il mondo.

Oggi, ogni estate, mi godo lo spettacolo da spettatore.

Seguo tappa per tappa. Mi commuovo per un’impresa in solitaria. Commento con mia moglie (ormai diventata intenditrice) la scelta tattica di una squadra.

Mi indigno per chi corre accanto ai ciclisti travestito da pollo o da diavolo. 

Ma resto, sempre, affascinato.

Il ciclismo è uno degli ultimi sport veramente popolari, nel senso più nobile del termine. 

Non c’è biglietto, non ci sono barriere. Basta una curva di montagna, una sedia pieghevole, un panino. E il passaggio dei corridori è qualcosa che non si dimentica. Per pochi secondi, il mondo si ferma. Tutti con il naso all’insù, le mani pronte ad applaudire, i bambini sulle spalle dei padri, le nonne col grembiule ancora indosso.

Certo, ci sono anche gli idioti. 

Quelli che pensano che la corsa sia solo lo sfondo del loro selfie. 

Ma nonostante tutto, questi imbecilli non riescono a rovinare la magia. 

Perché la magia è più forte.    È nel respiro affannato del campione che si stacca, nel gregario che tira per dieci chilometri senza speranza, nell’anziano spettatore che ha visto correre Coppi e lo racconta a un nipote distratto.

Il Giro, il Tour, la Vuelta: ognuno con la sua anima.

Il Tour è il Re Sole, maestoso e impeccabile.

Il Giro è l’Italia vera, quella dei muri scrostati, dei bar con la Gazzetta sul bancone, dei bambini che corrono dietro alle ammiraglie.

La Vuelta, invece, è la sorpresa. 

Era la sorella minore, quasi ignorata. Ora è diventata una corsa vera, bellissima e crudele. A fine agosto, con un sole che ti mangia le gambe, i corridori arrancano sulle salite della Sierra Nevada e dei Pirenei. Non è uno spettacolo per anime leggere.

Eppure il ciclismo, anche quando è estremo, è sempre umano.

È lo sport dove il campione può perdere tutto per una giornata storta. Dove la gloria va conquistata metro per metro. Dove le gambe contano, ma il cuore di più.

Mi dispiace che da troppo tempo l’Italia non produca più grandi campioni. Forse il ciclismo oggi è troppo faticoso per chi sogna la fama veloce. Forse il sacrificio non è più di moda. 

Eppure resta lì, a ricordarci che senza sofferenza non c’è impresa, e che la fatica può essere anche una forma di bellezza.

Gianni Bugno diceva che il ciclismo è uno sport, il calcio un gioco.

Aveva ragione. Il calcio si consuma in novanta minuti, tra polemiche e VAR. 

Il ciclismo invece ti accompagna per tre settimane, ogni giorno, in salita, in discesa, nel vento.

È un romanzo a puntate, che racconta il coraggio, la lealtà, la fragilità.

E allora capisco perché mi emoziono ancora. 

Perché ogni estate torno bambino, davanti alla TV, col caffè sul tavolo e lo sguardo fisso su una strada di montagna.

E ogni tanto, senza dirlo a nessuno, chiudo gli occhi e mi rivedo lì, con la mia bici azzurra, che correvo verso il traguardo immaginario gridando: “Ecco Van Looy, scatta, scatta, vince!”

E forse, in quel momento, vincevo davvero.

Umberto Baldo

Potrebbe interessarti anche:

Tour- Giro-Vuelta. La magia del ciclismo.  Anche visto dalla poltrona | TViWeb Tour- Giro-Vuelta. La magia del ciclismo.  Anche visto dalla poltrona | TViWeb

Testata Street Tg Autorizzazione: Tribunale Di Vicenza N. 1286 Del 24 Aprile 2013

Luca Faietti Direttore Fondatore ed Editoriale - Arrigo Abalti Fondatore - Direttore Commerciale e Sviluppo - Paolo Usinabia Direttore Responsabile

Copyright © 2025 Tviweb. All Rights Reserved | Tviweb S.R.L. P.Iva E C.F. 03816530244 - Sede Legale: Brendola - Via Monte Grappa, 10

Concessionaria pubblicità Rasotto Sas

Credits - Privacy Policy