La ‘Prima campanella’ a Vicenza ieri e oggi: quando si andava a scuola a piedi

di Alessandro Cammarano
A Vicenza il primo giorno di scuola non è mai stato soltanto una data segnata sul calendario: è da sempre un rito collettivo che da generazioni accompagna i bambini e le loro famiglie in quel delicato passaggio dall’estate all’autunno.
È un giorno che profuma di quaderni nuovi, di matite appena temperate, e per i più piccoli, di grembiuli stirati la sera prima.
Chi lo ha vissuto non può dimenticare quella trepidazione che mescolava paura e felicità, né la cartella che non era mai stracolma di libri come oggi, ma conteneva solo l’essenziale: due quaderni dalle copertine colorate, il sussidiario con le illustrazioni che sapevano di avventura, e soprattutto la merenda preparata in cucina – una mela lucidata con cura, un panino con la marmellata o col salame, o la fetta di torta rimasta dalla colazione della domenica.
Nelle scuole elementari della città – dalla “Vittorino da Feltre”, detta “Piarda Fanton” alla “Giacomo Zanella” – la scena si ripeteva ogni anno con la stessa solennità semplice: bambini con lo zainetto più grande di loro, le mani sudate che stringevano quelle di mamma e papà, e maestre che accoglievano all’ingresso con il sorriso di chi sapeva trasformare l’ansia in curiosità.
Alle scuole medie che punteggiano i quartieri da San Pio X, con la “Barolini” a Laghetto, ma anche la “Leonardo da Vinci” in Contrà Riale e la “Scamozzi” (ora “Maffei”) a Santa Caterina, l’emozione cresceva: i corridoi sembravano lunghissimi, i professori un po’ arcigni, l’intervallo diventava un’oasi di libertà e chi aveva un diario iniziava a riempirlo di frasi, disegni e biglietti passati di nascosto.
E poi c’erano le superiori, con i licei storici come il “Pigafetta” e il “Lioy”, gli istituti tecnici come il “Rossi”, il “Canova e l’”Almerico da Schio”, o le scuole professionali come il “Lampertico” . Il primo giorno lì era un rito di iniziazione: ritrovare compagni cresciuti durante l’estate, fare il giro dei motorini parcheggiati, ascoltare le prime storie esagerate delle vacanze.
La città intera partecipava a quel brusio: nonni che accompagnavano a piedi i nipoti fino al portone, genitori che si salutavano in fretta con un “in bocca al lupo”, bambini che imparavano presto a tornare a casa, rigorosamente da soli, con il quaderno sotto il braccio e il diario con i compiti assegnati.
Era un tempo in cui l’autonomia si conquistava passo dopo passo, e il tragitto casa-scuola non era percepito come un rischio, ma come parte della crescita.
Si andava a piedi o in bicicletta, ci si fermava a salutare i compagni, si imparava a conoscere il proprio quartiere anche così.
La scuola non era soltanto un luogo di studio: era un’estensione della comunità, un punto di incontro dove la città respirava insieme ai suoi figli.
Oggi lo scenario è profondamente cambiato.
Le chat di classe iniziano a vibrare già all’alba, il primo ingresso viene immortalato come fosse una cerimonia ufficiale, e davanti agli istituti è facile trovare file di SUV in doppia fila, con i motori accesi, a presidiare i cancelli; e se piove “apriti cielo!”: lo strade intono agli istituti scolastici sembrano la Ginza di Tokyo all’ora di punta.
Non si tratta più solo dei bambini delle elementari: spesso ad attendere i genitori ci sono ragazzi delle superiori ormai maggiorenni, accolti con la stessa ansia protettiva di quando avevano sei anni.
È il regno delle “mamme pancine”, come la definizione ironica ma assai calzante ha voluto battezzare queste madri costantemente in apprensione per i loro frugoli di centottanta mesi: un’attenzione esagerata che sembra negare l’autonomia e prolungare un’infanzia che dovrebbe invece lasciare spazio alla responsabilità.
Il contrasto con il passato è forte e quasi grottesco: da un lato i pargoli di un tempo che con pochi libri nello zaino imparavano a camminare da soli per le strade della città, dall’altro i ragazzi di oggi che arrivano a scuola con smartphone, cuffie di marca e genitori che li scortano fin dentro l’androne.
Una trasformazione che dice molto non solo della scuola, ma anche della società: più tecnologica, certo, ma anche più ansiosa e meno incline a lasciare che i figli scoprano il mondo con i propri passi.
Eppure, nonostante tutto, la prima campanella conserva ancora la sua magia.
Ogni settembre Vicenza si risveglia con quel brulichio davanti alle scuole, con i sorrisi incerti dei bambini, con il fruscio delle pagine nuove e l’emozione che resta intatta, anno dopo anno. Forse la nostalgia ci porta a guardare indietro con tenerezza, ma basta soffermarsi davanti a un portone scolastico per capire che, tra SUV e smartphone, quella scena di comunità resiste ancora.
È diversa, certo, ma racconta lo stesso la città e il suo futuro: quello che ogni mattina si affida, emozionato e un po’ spaventato, al suono di una campanella.













