Dimmi che cover dello smartphone usi e ti dirò chi sei

Di Alessandro Cammarano
C’è stato un tempo in cui il telefono serviva solo a telefonare, o al massimo a inviare SMS da 150 caratteri; ora serve a tutto: pagare il caffè, mostrare i gatti, trovare l’anima gemella o perderla definitivamente, ma soprattutto, serve a mostrare chi siamo, o almeno chi vorremmo essere.
La cover dello smartphone è diventata il nostro biglietto da visita psicologico, il nuovo tatuaggio non permanente, il guscio dell’ego digitale.
E allora vediamoli, questi umani contemporanei, uno per cover e sempre in un’ottica ironica e politicamente scorretta.
Al primo posto il/la boomer con la custodia a libretto in similpelle marrone: il suo smartphone è sigillato in una custodia che ricorda un’agenda del 1997, con tanto di linguetta magnetica e spazio per la tessera del supermercato. Quando squilla, apre la cover come un prete il messale e dice: “Pronto?” con tono di chi risponde da un telefono a disco.
Il boomer con la cover a libretto non conosce la parola “touch; per lui “scorrere” è un verbo che si usa solo con “lacrime” e lo scrolling si fa rigorosamente col dito indice che dallo schermo si leva a indicare spazi iperurani.
È irrilevante che il suo telefono sia più potente di un computer della NASA, lui lo usa per guardare le foto del nipotino e il meteo di Canale 5.
La cover marrone o nera – le boomer scelgono anche il rosa o il rosso –, serve anche come portafoglio archivio e talvolta soprammobile. È l’ultimo baluardo contro l’ansia tecnologica: protegge non solo il telefono, ma la memoria di quando le cose avevano un peso.
Poi c’è la mamma multitasking – spesso “pancina” – con la cover personalizzata, grazie ai negozi specializzati, con immagini tra il ridicolo e l’improbabile.
La riconosci al volo: sul retro del telefono campeggiano i volti dei figli sorridenti, magari ritagliati male da una foto di Prima Comunione. A volte ci sono anche il cane, il marito e il nome “Family ” in Comic Sans.
Ogni graffio è una lacrima, ogni ditata un affronto; e se il telefono cade, urla “Oddio, i bambini!” — non per i bambini veri, ma per quelli della foto.
La cover personalizzata è la moderna cornice d’argento da salotto; segnala una persona che vorrebbe rallentare ma è già in ritardo.
Un giorno comprerà un nuovo smartphone solo per poter cambiare la foto del retro.
La batteria è sempre all’1%, ma l’amore familiare — quello sì — al 100%.
Interessante anche Il “minimalista nordico: il suo telefono è nudo o rivestito da una cover trasparente ultrasottile, perché – dice – che la tecnologia va “lasciata respirare”, come se fosse un animale domestico. È quello che gira con borraccia in acciaio, sneakers bianche e zaino monocolore, e che chiama “workspace” la scrivania di IKEA.
Non è povero, è “essenziale”.
La sua cover trasparente è il simbolo di un’ideologia: mostrare la purezza dell’oggetto e, contemporaneamente, proteggere l’investimento da 1.200 euro.
Dentro, il telefono custodisce app per la meditazione, calendari sincroni e liste di cose da fare che non farà mai.
È la versione zen dell’ansia contemporanea.
A seguire il “creative” con la cover ironica: sulla sua cover ci trovi scritto “Don’t touch my phone”, oppure c’è un unicorno, una fetta di pizza, un meme del 2018 o una citazione di Bukowski scritta in glitter.
Questo è il tipo che ti dice “io non sono come gli altri” mentre è identico a tutti gli altri che dicono “io non sono come gli altri”.
La cover ironica è il suo modo di difendersi dal vuoto cosmico. È il pagliaccio che ride per non piangere, solo in formato 4,5 pollici.
L’ironia si consuma, come la plastica della cover stessa, ma lui continua a cambiare: un giorno è ironica, un giorno vintage, un giorno impegnata. È l’equivalente telefonico del “taglio nuovo” dopo una delusione amorosa.
Parecchio interessante lo hipster nostalgico con la cover di legno o sughero.
Sembra uscito da una rivista di design o da un eremo, il suo telefono, chiuso in un guscio di legno di noce, profuma di bio e di storytelling; ti racconta che l’ha comprata da un artigiano islandese che lavora solo con alberi caduti per cause naturali.
Lo vedi nei coworking o nei caffè con musica lo-fi. Quando posa il telefono, sembra che stia mettendo a riposo un piccolo monolite.
La cover in legno serve a ricordare che un tempo gli oggetti erano fatti di materia e non di dati. Peccato che sotto il legno ci sia un telefono con tre fotocamere e 512 giga di contraddizioni.
Non si può tralasciare l’adolescente postmoderno con la cover fluorescente.
È la versione umana della discoteca. La cover cambia colore, si illumina, a volte ha brillantini liquidi che scorrono come lava magmatica.
Ogni vibrazione è una festa, ogni notifica un battito di cuore.
Dentro, il telefono è un universo parallelo: TikTok, Direct, audio di 4 secondi e 98 chat archiviate.
Quando il telefono cade, non c’è tragedia: “Ne compro un altro”.
Perché la cover fluorescente non serve a proteggere il telefono, ma a proteggere l’ego. È una dichiarazione di presenza in un mondo che scorre troppo in fretta: “Ehi, esisto, e pure in modalità neon!”.
E per finire abbiamo l’apocalittico con la cover blindata: sembra che stia aspettando l’invasione aliena o almeno il prossimo diluvio universale.
La cover è in gomma dura, con rinforzi militari, a volte pure la clip da cintura.
Dice che “non si sa mai” e che “l’ho pagata ma indistruttibile”.
Se cade un meteorite, sopravviveranno solo due cose: le blatte e il suo telefono.
È il tipo che fa backup dei backup e che tiene il caricatore in tasca “per sicurezza”.
La cover blindata è il suo scudo contro la precarietà del mondo: non puoi controllare l’economia, ma puoi proteggere il tuo smartphone come un figlio.
In conclusione, la cover dello smartphone è la nostra seconda pelle digitale: la scegliamo, la cambiamo, la giudichiamo negli altri. È il nuovo oroscopo sociale.
E forse, se Freud fosse vivo, avrebbe scritto L’interpretazione delle cover.
Chissà, magari la prossima volta che guarderemo uno sconosciuto, invece di chiederci “che lavoro farà?”, penseremo:
“Che cover usa?”.













