La mutazione genetica di Israele: l’invasione degli ultraortodossi

Umberto Baldo
Trent’anni fa, il 4 novembre 1995, a Tel Aviv, il premier israeliano Yitzhak Rabin, premio Nobel per la Pace, veniva assassinato al termine di una manifestazione a favore degli accordi di Oslo. A ucciderlo, sparandogli tre colpi di pistola da distanza ravvicinata, fu un giovane estremista della destra religiosa.
Un anno dopo, nel 1996 alle elezioni, Benjamin Netanyahu divenne per la prima volta Primo Ministro, alla guida del Likud.
Fu un assassinio politico che segnò per sempre la storia di Israele.
Ma forse allora pochi ebbero la percezione di quanto gravi e durature sarebbero state le conseguenze, che oggi si mostrano in tutta la loro portata.
Perché chi, con le sue parole e il suo fanatismo, contribuì allora a creare il clima che rese possibile l’uccisione di Rabin — oggi è al potere in Israele.
La storia, come sempre, presenta il conto.
Oggi il Paese è radicalmente diverso da quello sognato dai suoi padri fondatori.
Si è compiuta quella che potremmo definire una vera e propria “mutazione genetica” della società israeliana.
Mentre i fondatori — Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Sharett — erano in gran parte laici, ashkenaziti, di cultura europea e di ispirazione socialista, la crescita demografica di Israele oggi viene soprattutto da tre componenti: i cittadini arabi israeliani, gli ebrei di origine mediorientale e, soprattutto, gli ultraortodossi Haredim, che dedicano la vita allo studio religioso e vivono secondo regole rigidamente separate dal resto della società.
Gli Haredim — riconoscibili per gli abiti neri, i cappelli a larghe tese o i colbacchi scuri, e le treccine ai lati del volto, rappresentano oggi il più spinoso problema interno per Netanyahu.
Sono infatti la base elettorale dei due partiti estremisti religiosi indispensabili per la sua coalizione, United Torah Judaism (UTJ) e Shas.
Questa è gente che si nutre di messianesimo politico, che sogna uno Stato governato dalla Halakhah, la legge ebraica, che predica visioni omofobe, misogine, e favorevoli ad una segregazione violenta dei Palestinesi nei Territori.
Il punto più caldo e divisivo dello scontro è il servizio militare obbligatorio: in Israele tutti devono servire nelle forze armate, tranne appunto i giovani Haredim.
Un privilegio che risale ad un accordo stipulato negli anni Cinquanta da Ben Gurion con i rabbini, pensato per poche decine di studenti e diventato, nel tempo, una esenzione di massa.
La Corte Suprema israeliana ha però stabilito di recente che questa discriminazione viola il principio di uguaglianza dei cittadini, imponendo al governo di regolamentare la leva in modo uniforme.
Apriti cielo: gli Haredim hanno reagito negativamente, e nei giorni scorsi si è svolta una manifestazione oceanica a Gerusalemme, la più grande da dieci anni a questa parte, con la partecipazione di tutte le correnti ultra-ortodosse – sefarditi, chassidici e lituani – unite nel difendere i propri privilegi.
Per loro, l’ imposizione della leva è una vera e propria “persecuzione” dello Stato contro chi “studia la Torah”.
Intanto, l’opinione pubblica israeliana laica è furiosa: in piena guerra a Gaza, l’idea che decine di migliaia di giovani religiosi siano stati esentati dal rischio e dal sacrificio, mentre tutti gli altri sono andati al fronte, magari a morire, appare sempre più intollerabile.
Come ha scritto Haaretz, lo scontro sulla leva è diventato il terreno simbolico di una lotta per l’anima dello Stato ebraico: chi incarna il “vero israeliano”? Chi serve in uniforme o chi prega in seminario?
Netanyahu è intrappolato tra due Israele: da un lato, la pressione pubblica e giudiziaria per sanare una palese ingiustizia; dall’altro, la minaccia dei Partiti religiosi di far cadere il governo se una nuova legge non garantirà ampie esenzioni.
Ma se fa approvare una legge severa, perderà i suoi alleati ultra-ortodossi; se la ammorbidisce, perderà il consenso dei militari e dell’elettorato laico, decisivo in vista delle elezioni del 2026.
È un equilibrio precario, una camminata sul ghiaccio sottile.
La manifestazione degli Haredim non è che il sintomo di una frattura profonda e crescente, perché la demografia gioca a loro favore: gli ultraortodossi hanno tassi di natalità altissimi.
Tanto per essere più chiaro, quest’anno, per la prima volta, i bambini iscritti alla prima elementare nelle scuole religiose ebraiche hanno superato quelli delle scuole laiche.
Un segnale potente del futuro che si prepara.
E allora vi pongo una domanda inevitabile: vi ricorda qualcosa questa vicenda?
Forse i Talebani, forse gli Ayatollah?
Concordo con chi sostiene che all’interno dello Stato ebraico convivono due società, che non hanno più nulla a che fare l’una con l’altra, nulla da condividere, dando vita ad una guerra interna, che riguarda l’anima di Israele.
Il rischio è quello di una lenta involuzione della democrazia israeliana verso una forma di teocrazia, in cui l’oscurantismo religioso impone la sua morale sulle istituzioni e sulla vita civile.
La storia, del resto, ci insegna che ogni tentativo di mettere i “preti” al governo — da Savonarola a Calvino — è finito nel fallimento e nella repressione delle libertà individuali.
Ecco perché le democrazie occidentali, Israele compresa, devono difendere con forza la separazione tra Stato e Religione.
Oggi Israele è a un punto di svolta storico: ed il modo in cui affronterà questa crisi dirà molto sul suo futuro, e forse anche sul nostro.
Umberto Baldo













