Pianeta turista: gli Italiani non sono i peggiori?

di Alessandro Cammarano
Ogni estate l’Italia diventa la capitale mondiale del turismo da manuale di antropologia spicciola. Una processione infinita di umanità assortita attraversa piazze, musei, spiagge e trattorie, lasciando dietro di sé selfie, bottigliette d’acqua vuote e un campionario di comportamenti che meriterebbero un’Enciclopedia Treccani del turista straniero e che tenteremo di esaminare, sempre in modo ironico e politicamente assai scorretto.
Gli Americani sono naturalmente i primi ad arrivare, e non si fanno mai mancare nulla. L’Europa, per loro, è un unico paese: una specie di grande Wyoming con più fontane e meno fast food.
Cercano la Tour Eiffel a Firenze, si stupiscono che il Colosseo non abbia un tetto e trattano Venezia come se fosse il Venice Hotel di Las Vegas. Parlano a volume da aeroporto, masticano chewing gum persino dentro il Pantheon e fotografano ogni gelato come fosse la Cappella Sistina. Ma del resto, senza la loro ostinazione ingenua, chi mai avrebbe pensato di chiedere al tassista romano: “How much to go to Pisa and back in one hour?”
A far loro concorrenza sonora ci pensano gli Inglesi, eterni professionisti dell’alcol.
Li distingui subito: alle dieci del mattino sono già più storditi di un marinaio dopo una tempesta forza dieci. Riserviamo loro piazze monumentali, chiese affrescatei, cupole rinascimentali, palazzi irripetibili e loro ci vomitano sopra un gin tonic con la stessa naturalezza con cui noi butteremmo in terra i gusci delle noccioline. In spiaggia assumono la tonalità di un semaforo rotto – rosso fisso – e in piazza diventano cori da stadio in cerca di un pallone immaginario.
Se gli americani urlano e gli inglesi barcollano, i Cinesi invece comprano. Il loro turismo è un assalto organizzato: monumenti come scenografie, boutique come templi.
Non si emozionano davanti alla Pietà, ma davanti a una borsa strafirmata sì, e la comprano in doppia copia, per sicurezza. Dopo due ore in via Condotti hanno investito più soldi di quanti ne servano a ristrutturare Pompei, e quando ripartono, ti chiedi se abbiano visto davvero Roma o se abbiano semplicemente svuotato la capitale del suo guardaroba.
Gli Indiani benestanti aggiungono un altro strato di pittoresco: viaggiano in clan, con la nonna in sari fotografata davanti al David come se fosse amica intima di Michelangelo.
Non smettono mai di fare domande, a raffica, come un interrogatorio permanente alla guida turistica, e concludono invariabilmente con un mesto: “L’India è più vivibile”. Ma, intanto, fanno il pieno di foto e souvenir, da esibire poi come prova che anche in Europa si può passare il tempo, seppur con qualità discutibile.
E se gli indiani commentano, i Francesi giudicano.
Non sono turisti: sono ispettori. Entrano in pizzeria e chiedono “avete qualcosa di più leggero, tipo un croque-monsieur?”. Guardano le nostre chiese con aria sospettosa, e i nostri musei con la presunzione di chi è convinto che il Louvre sia in realtà la vera capitale culturale d’Italia. Ogni frase che pronunciano ha sottotitolo incorporato: “chez nous c’est meilleur”: in fondo, vengono qui solo per confermare la loro tesi.
Quando i francesi se ne vanno, arrivano gli arabi del Golfo, che hanno trasformato l’aperitivo in performance economica. Ordinano sei spritz di fila – alla faccia di Maometto –, ne bevono uno e lasciano gli altri cinque lì: scenografia liquida. Le signore passeggiano velate con borse da venticinquemila euro, mentre osservano con un sopracciglio alzato la folla che si divide un tagliere da 12 euro. È la loro forma di beneficenza culturale: farci sentire provinciali anche nella patria della sprezzatura.
E non finisce qui. Perché oltre a queste categorie regine, c’è il grande arcipelago degli “altri”, ciascuno con la propria liturgia.
I tedeschi sono i conquistatori dell’ombrellone: alle 7 del mattino marciano verso la spiaggia, piantano bandiere di asciugamani e delimitano il territorio con precisione ingegneristica. Non scendono in guerra, ma in spiaggia sì, e la loro disciplina fa impallidire ogni bagnino romagnolo.
Gli spagnoli portano invece la movida a domicilio. Trasformano vicoli barocchi in afterhour, urlano “¡Olé!” a qualsiasi cosa – un motorino, un lampione, una fontana – e vivono in fuso orario notturno perenne. La mattina li riconosci perché dormono ovunque, come gatti randagi, dalle panchine ai gradini delle chiese.
Gli olandesi si presentano in gruppo, sempre, e sempre rossi come semafori. Arrivano in bicicletta anche in città senza piste ciclabili, convinti che il traffico italiano si fermi per lasciarli passare. Il loro volume di voce è superiore a quello delle campane del Duomo, e spesso pure delle sirene della polizia.
Gli australiani, “backpacker” per vocazione, girano in infradito con zaini grandi quanto monolocali a Milano; scambiano i borghi medievali per campeggi improvvisati e chiedono dove poter surfare “nelle vicinanze”, come se San Gimignano avesse una spiaggia nascosta.
I Russi – quando venivano – non facevano turismo, ma colonizzazione di lusso. Entravano nei ristoranti come oligarchi in vacanza e ordinavano champagne come fosse acqua. Le Ferrari a noleggio erano per loro indispensabili quanto il passaporto, purché rosse: in fondo, anche il patriottismo ha i suoi rituali.
Gli svizzeri praticano il turismo contabile. Guardano i listini con aria sospetta, fotografano tutto con precisione notarile, comprano poco ma registrano molto. Probabilmente ogni foto finisce in un dossier fiscale da presentare a Berna.
I giapponesi sono i maratoneti del turismo: dieci città in cinque giorni, un click per monumento, mezzo sorriso e via. Visitano l’Italia come fosse un album Panini: riempiono le figurine, ma non ricordano il sapore della pizza né l’odore del mare.
Insomma, da maggio a settembre l’Italia diventa il più grande teatro di varietà del mondo, un circo globale dove i turisti sono gli attori inconsapevoli e noi gli spettatori divertiti e, talvolta, disperati. Urlano, comprano, bevono, si bruciano e si perdono, ma senza di loro ci mancherebbe il piacere di prenderli in giro.
E poi, diciamolo: se li osserviamo con tanto sarcasmo è solo perché abbiamo la memoria corta. Appena mettiamo piede fuori dall’Italia, anche noi diventiamo “quella simpatica categoria di turisti pittoreschi” che gli altri non vedono l’ora di raccontare con lo stesso disprezzo divertito.
In fondo, siamo tutti turisti a casa d’altri: cambia solo il prezzo della bottiglietta d’acqua.













