Pubblicità orrende e l’istinto di tirare uno zoccolo alla TV

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di Alessandro Cammarano
In principio fu Carosello. E tutto era bello, semplice, sorridente: Mina cantava per la cedrata, Fellini dirigeva per Campari e per Barilla – indimenticabile la signora chic che ordina “rigatoni” –, Oliviero Toscani spaccava l’opinione pubblica a colpi di provocazioni visive. La pubblicità era arte popolare, racconto, sogno.
Poi, qualcosa si è rotto. Forse con la terza stagione di Uomini e Donne Over, forse con l’avvento degli algoritmi programmati da una generazione cresciuta a merendine e clickbait.
Oggi, lo spettatore medio italiano, in un innocente zapping serale o tra un video e l’altro su YouTube, si ritrova invaso da spot grotteschi, jingle stridenti, attori svogliati e messaggi che rasentano (e talvolta oltrepassano) l’assurdo.
Eppure — paradosso supremo — li ricordiamo, li citiamo, li imitiamo, li temiamo.
Una vera e propria sindrome di Stoccolma a base di slogan infelici e tormentoni inconsapevoli.
Ecco quindi, con rigore da entomologo del trash, la nostra personale Top 6 degli spot più brutti – ma memorabili – della pubblicità italiana recente, quelli per i quali ti verrebbe voglia di tirare uno zoccolo alla TV.
Al primo posto “Estate bollente?”
Scena: spiaggia rovente; Elisabetta Canalis in cima alla torretta del bagnino a mo’ di sirena urbana impugna un megafono e urla con voce “sensuale” “Estate bollen… te?”
Sembra l’incipit di un cinepanettone con Gigi e Andrea, ma è solo l’invito ad abbeverarsi di una bevanda al gusto di thè, venduta come risposta esistenziale al cambiamento climatico.
La recitazione è iperreale, il thè viene inquadrato come se fosse filtrato attraverso un’aura zen, e la Canalis si erge a divinità idratante, scesa in spiaggia per redimere i disidratati.
Più che pubblicità, teatro dell’assurdo a base di liquidi industriali. Prossima tappa? Un frullato d’aria e benessere servito in vegana.
Secondo posto per lo spot del noto colosso che vende per corrispondenza qualsiasi cosa, perfetta sintesi di persuasione subliminale e disagio sonoro.
L’idea sarebbe quella di celebrare la felicità dell’acquisto online con una reinterpretazione corale del Canon in Re maggiore di Pachelbel.
Ma quella che dovrebbe essere una melodia barocca diventa un tormento da lavaggio del cervello: una voce monotona intona un mantra pubblicitario con lo stesso calore di un assistente vocale col jet lag.
Il risultato? Invece di stimolare shopping compulsivo, induce istinti survivalisti: disdire il il servizio di consegna privilegiata, staccare la corrente, rifugiarsi in una baita senza segnale.
Il web lo ha ribattezzato “la canzone delle tenebre”; il fornitore della “qualunque”, da parte sua, incassa le critiche con olimpica indifferenza: l’importante è che se ne parli. Anche col mal di testa.
Terzo posto per l’allarme antifurto, re dell’ansia casalinga.
Formula invariata da anni: due personaggi (vicini, cugini, sagome parlanti) si scambiano battute su furti domestici con lo slancio emotivo di una segreteria telefonica; “Sai che hanno derubato la casa di Marco?”, “Oh no, dobbiamo fare qualcosa.”
Segue inquadratura sulla centralina d’allarme, voce narrante da spot governativo, atmosfera da fiction scolastica, il tutto, con una regia così piatta da sembrare firmata da un’intelligenza artificiale programmata in modalità “conformismo”.
Eppure, come una muffa visiva, si diffonde; è virale ed è ovunque.
Il marchio non vende sicurezza. Vende panico organizzato in comode rate mensili.
Al quarto posto entra prepotentemente il prezzemolo delle agenzie immobiliari, con una pubblicità che ha l’ambizione di essere brillante e l’effetto di una cena aziendale con sketch obbligatori.
Lo spot ci presenta due improbabili investigatori: Sherlock Holmes e il suo fido Watson, rivisitati in versione immobili digitali.
Il problema non è solo l’idea — già di per sé claudicante — ma la battuta chiave che riecheggia negli incubi di chiunque abbia un televisore: “Immobiliare, Watson!”
Un gioco di parole così forzato e balengo da piegare le leggi della grammatica e dell’autoironia, tanto da meritarsi un posto d’onore nel girone dei copywriter dannati.
La recitazione è da saggio delle medie, gli effetti speciali da escape room fuori budget, e il risultato globale è il perfetto connubio tra cringe e smarrimento.
Credevano di aver trovato il colpo di genio, e invece ha solo risvegliato la voglia di cambiare canale.
Entra di diritto nella classifica anche Michelle Hunziker, che per promuovere un detersivo da lavatrice ci regala un tormentone surreale: “Solito problééma?”.
Lo dice sorridendo, con tono da cabaret aziendale, mentre osserva pile di bucato come fossero il risultato di una crisi esistenziale.
La pronuncia orrendamente ticinese, il tono da sitcom del sabato pomeriggio, la musichetta da centro commerciale: tutto concorre a creare un’esperienza sensoriale disturbante.
Il problema, in realtà, non è la schiuma. È il fatto che, dopo una sola visione, “solito problééma?” ti pereseguita come la puntura di una zecca e ti si tatua nel subconscio.
Dopo venti passaggi, potresti urlarlo anche tu… al fruttivendolo, in metro, al prete durante l’omelia.
Ultima, ma non ultima nell’orrore il cane saccente che compara i prezzi dei servizi.
Scena: ristorante elegante. Lui ha appena scoperto che la sua assicurazione è aumentata. Lei aspetta il conto.
Ma lui, con aria sconvolta, esclama: “Non posso pagare… l’assicurazione è aumentata!”
Ed ecco, dal nulla, il cane. Un bracco di Weimar sbuca da sotto il tavolo, come se fosse stato convocato con un fischietto mistico. Sguardo da oracolo, voce narrante, musica epica.
Lo spot ambirebbe all’ironia, ma finisce in zona black comedy canina; il bracco è l’unico elemento coerente in un quadro di disagio comunicativo in salsa assicurativa.
Il messaggio finale dovrebbe essere: “Confronta e risparmia”. Quello che arriva è: “Occhio, che pure il cane ti giudica”.
Ma allora perché continuiamo a guardarli? A canticchiarli? A odiarli, ma citarli a cena?
Perché lo spot brutto oggi non è un errore: è una strategia.
Non deve convincere: deve disturbare. Non deve sedurre: deve infestare.
Il fastidio è il nuovo engagement, il trash, la nuova moneta dell’attenzione.
Finché ci faremo coinvolgere, ridere, indignare, questi spot continueranno a dominare.
Perché parlano di noi, delle nostre ansie, delle nostre debolezze, dei nostri scroll compulsivi.
La TV non è morta; è solo diventata virale, e dunque benvenuti nell’era dello spot-brutto-che-funziona.
E che il disagio sia con voi.













