23 Maggio 2025 - 11.02

Lo sciopero del venerdì: sindacalismo o week end lungo?

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Proudhon

C’è stato un tempo in cui il sindacato in Italia faceva tremare i palazzi del potere.
Un tempo in cui bastava una telefonata dalle Centrali Sindacali a Palazzo Chigi per far cambiare rotta a un Governo, o farlo cadere del tutto.
Gli scioperi erano strumenti di lotta dura, non certo una gita organizzata.
Si scioperava di lunedì, di martedì, a volte pure di mercoledì, se serviva a ottenere un risultato.
Erano anni in cui il Sindacato era il perno attorno a cui ruotava la politica economica del Paese.
Non si faceva una manovra, non si firmava un contratto, senza l’assenso delle “parti sociali”.
Lo sciopero era un’arma seria, usata con precisione chirurgica.
Si proclamava anche di martedì o giovedì, poco importava il disagio: era una questione di principio e forza.
Negli anni Settanta e Ottanta, lo sciopero era una chiamata alle armi civili. Le piazze si riempivano, le città si fermavano, e i governi cadevano.
Il Sindacato non era un corpo separato dalla società, era la società.
Poi è venuto il riflusso, il post-ideologico, il neoliberismo, la flessibilità.
E anche il Sindacato sembra aver cambiato pelle.
Oggi pare più un’organizzazione per il tempo libero.
Lo sciopero?
Sì, ma solo il venerdì, ché il week end è sacro.
Non sia mai che la protesta interferisca con la seconda casa o il camper.
A mio avviso non è solo una questione di forma, è di sostanza.
Certo, lo sciopero è un diritto sacrosanto. Ma se diventa prevedibile, se non disturba più nessuno, se non interrompe davvero nulla, allora diventa una sceneggiata. E il sindacato, da leva di pressione, si trasforma in agenzia di viaggi.
Si è trasformato un diritto in un rituale inoffensivo; lo “sciopero generale” in “weekend generale”, con il rischio che prima o poi qualcuno proponga lo sciopero in smart working. Così, comodamente dal divano.
E vogliamo parlare dei motivi?
Una volta si scendeva in piazza per difendere il contratto nazionale; oggi per “il rilancio del ruolo della contrattazione nell’ottica della prospettiva inclusiva delle politiche attive del lavoro”. Tradotto: nessuno ci capisce niente, ma intanto si stacca.
E qual è il giorno giusto per un bel ponte? Il venerdì! Allora sciopero e via, tre giorni di libertà, che se uno è furbo ci infila pure un permesso il lunedì e arriva al martedì. La lotta di classe trasformata in “last minute”.
La sensazione – che poi è quasi una certezza – è che lo sciopero del venerdì sia diventato una forma di “vacanza con giustificazione”, un’occasione per allungare la permanenza in montagna o al mare, a seconda della stagione. Altro che conflitto sociale: qui si va verso il turismo rivendicativo. Invece del picchetto davanti alla fabbrica o al ministero, meglio la fila all’autogrill.
Si dirà: ma i diritti vanno difesi! Certo. Ma difendere i diritti comporta anche sacrificio, non il ponte lungo.
Un Sindacato che vuole contare davvero non può limitarsi a protestare quando fa più comodo, o quando lo sciopero si incastra perfettamente con l’agenda del tempo libero.
E così, mentre l’Italia arranca tra inflazione, salari fermi e produttività negativa, il sindacalismo si è trasformato in una liturgia stanca, in cui anche la protesta è stata piegata al ritmo del tempo libero.
Lavoratori usati come comparse, più che protagonisti.
Altro che lotta di classe: questa è la classe del venerdì pomeriggio.
Forse è arrivato il momento di dire le cose come stanno: se un Sindacato vuole essere credibile, deve tornare a disturbare davvero.
Anche di martedì mattina, se serve.
Altrimenti tanto vale mandare i volantini sindacali assieme ai pacchetti last minute.
In altre parole forse è ora di riscoprire la lezione dei vecchi sindacalisti: disturbare davvero, per contare davvero!
Proudhon

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