20 Marzo 2021 - 12.04

Crack Bpvi, sentenza che condanna Zonin ma anche gli azionisti hanno colpe?

Spesso certe sentenze lasciano l’amaro in bocca. E quella pronunciata venerdì 19 marzo 2021 da tre donne, la Presidente Deborah De Stefano, affiancata dalle dott.sse Camilla Ameduro ed Elena Garbo, sul crack della ex Popolare di Vicenza, è forse una di quelle.
Almeno a giudicare dalle reazioni, dai commenti, che i lettori di Tviweb hanno scritto sulle pagine Facebook. Commenti che fanno ancora trasparire la rabbia di coloro che sono stati vittime del fallimento della Banca, unitamente all’insoddisfazione per la pena inflitta a Zonin giudicata troppo lieve (un lettore ha espresso l’opinione che gli anni di reclusione dovevano essere 600), e alla consapevolezza che il verdetto quasi sicuramente influirà poco sui risarcimenti.
E poi c’è un altro fattore da non trascurare, quello che i dispositivi delle sentenze per forza di cose sono “parole fredde”, tecnicismi giuridici, che non riescono certamente a esprimere le tensioni, le animosità, le speranze, che nascono e lievitano nel corso del processo, chiamato nella specie a valutare un buco da 6 miliardi, e la perdita dei risparmi di oltre 100mila correntisti.
A nulla conta che si sia trattato di un procedimento che è durato oltre due anni, un procedimento che ha richiesto uno sforzo mostruoso per arrivare a sentenza il più rapidamente possibile, mostruoso nei numeri, con 1milione di pagine, 160 testimoni sentiti , più di 8mila parti civili costituite.
Il tutto per arrivare a questa conclusione: “Sei anni e sei mesi per Gianni Zonin. Sei anni e tre mesi per Emanuele Giustini. Sei anni a Paolo Marin e 5 anni ad Andrea Piazzetta. Assolti Giuseppe Zigliotto e Massimiliano Pellegrini perché il fatto non costituisce reato. Confiscati complessivamente 963 milioni di euro. Sanzione pecuniaria per l’ex banca Popolare di Vicenza pari a 364 milioni di euro”
Questo il dispositivo della sentenza: quattro condanne, due assoluzioni e un bel po’ di soldi sequestrati.
Eppure con queste poche parole, fredde fin che volete, si è chiuso un procedimento giudiziario senza precedenti per il Veneto, che ha calato il sipario su una vicenda devastante per l’economia ed il popolo degli azionisti della Bpvi.
I reati contestati agli imputati erano falso in bilancio, ostacolo alla vigilanza e aggiotaggio, e nel corso del procedimento è emerso chiaramente il metodo delle baciate ( Kiss share secondo la definizione del Financial Times), cioè le operazioni “correlate”, mediante le quali la Banca concedeva crediti per l’acquisto delle proprie azioni. Dagli atti del processo risulterebbero oltre 1 miliardo di queste azioni “correlate”, che espresso in parole povere vuol dire che alla Banca mancava 1miliardo di capitale, ammanco che andava ad aggiungersi alle insufficienti coperture per le sofferenze.
Ma per chi, come chi scrive, non è stato coinvolto personalmente nella vicenda Bpvi come correntista od azionista, l’amaro in bocca ha un sapore diverso, pur restando sempre amaro.
Perchè non sempre la verità processuale coincide con la realtà storica.
Questo non vuol dire che Zonin ed i suoi dirigenti non andassero condannati, ci mancherebbe. Le sentenze si rispettano sempre, anche quando non le si condivide, e non è questo il caso, almeno per quanto mi riguarda.
Ma la sentenza, e non poteva essere diversamente, non condanna il “sistema” che ha portato al crack della Vicentina.
Ed il sistema bancario italiano con la crisi del 2008, quella di Lehman Brothers per capirci, mostrò tutte le sue inadeguatezze, le sue criticità.
E le mostrò particolarmente nel mondo delle Banche Popolari, che avevano un management forse impreparato alla crisi, ma che aveva in pugno gli azionisti, abituati da sempre a riporre la massima fiducia nella propria banca del territorio, considerata spesso la “banca di famiglia”. Azionisti fra l’altro abituati a fissare il prezzo delle azioni in Assemblea su proposta del Consiglio di Amministrazione, guarda caso sempre in crescita anno dopo anno.
Su questo mondo “familiare”, quasi fiabesco, si abbattè come un meteorite la Bce, che dopo la crisi del 2008 volle vederci chiaro, imponendo controlli sempre più stringenti.
Controlli che, spiace dirlo, negli anni precedenti probabilmente non erano stati fatti con il dovuto rigore da chi di dovere in Italia, o se erano stati fatti, erano stati probabilmente all’ “acqua di rose”.
Faccio fatica a credere, ma sicuramente è un mio limite, che Banca d’Italia non si sia accorta delle “baciate” nel corso delle sue periodiche ispezioni.
Io credo che, in un sistema bancario sano e trasparente, chi sbaglia, e viola le regole, e le baciate erano sicuramente una violazione, vada giustamente giudicato colpevole e sanzionato, ma che i regolatori debbano mettere in atto tutte le azioni per impedire la commissione di reati da parte del management e dei Cda. Il che significa in parole povere regole chiare e controlli serrati, e magari maggiore attenzione quando si scelgono i vertici delle Banche.
Ritornando alla sentenza del 19 marzo, non c’è dubbio che si tratta di una sentenza in certo qual modo “storica”, anche perchè apre ai danneggiati la strada del recupero per via civilistica.
Non va dimenticato comunque che, nonostante i giudici abbiamo fatto quasi l’impossibile per arrivare a sentenza in tempi rapidi, sempre di una sentenza di primo grado si tratta. Contro la quale sarà presentato sicuramente appello, e poi ci sarà l’eventuale ricorso per Cassazione. Inutile nasconderci che la prescrizione incombe, anche se pare che Gianni Zonin non voglia approfittarne, per arrivare ad una assoluzione giudiziaria piena. Ma si sa anche come vanno poi queste cose, e come alla fine prevalga la stanchezza.
Venenum in cauda, ritengo non si debba trascurare che nel processo non figurava l’ex Direttore Generale Samuele Sorato, la cui posizione è stata stralciata per gravi motivi di salute, e verrà giudicata in un altro procedimento.
E Gianni Zonin sa bene che il prosieguo del suo procedimento non potrà non essere influenzato dalla condotta processuale di Sorato, che quando verrà giudicato potrebbe dire che “il Presidente sapeva”, oppure che “Il Presidente non sapeva”. Una differenza non da poco.
Stefano Diceopoli

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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