27 Maggio 2025 - 9.31

Quando l’odio diventa abitudine. Lo chiamavano antisionismo. Era antisemitismo

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Umberto Baldo

Yaron Lischinsky e Sarah Lynn Milgrim , due membri dello staff dell’ambasciata israeliana a Washington, erano una giovane coppia in procinto di fidanzarsi. Lui aveva comprato un anello con l’intenzione di farle la proposta di matrimonio questa settimana a Gerusalemme.

Sono stati uccisi entrambi a colpi di pistola nella notte del 21 maggio, vicino al Museo Ebraico di Washington DC, da un 30enne di Chicago, Elias Rodriguez, che si è assunto la responsabilità del crimine, dicendo alla Polizia: “L’ho fatto io, l’ho fatto per Gaza. Liberate la Palestina!

Questo è solo l’ultimo eclatante episodio, ma c’è qualcosa di inquietante nei numeri e nei segnali che arrivano da tutto l’Occidente. 

L’antisemitismo, che si pensava sepolto sotto le macerie della Seconda guerra mondiale, e domato dalla memoria dell’Olocausto, sta risorgendo con una forza che non può essere ignorata.

In Francia, in Germania, nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti, si moltiplicano gli episodi di violenza, minaccia e discriminazione contro cittadini ebrei. 

Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, e la dura risposta di Israele su Gaza, l’odio ha ripreso corpo, spesso mascherato da “antisionismo”, ma che nel concreto si traduce in atti ostili verso chiunque sia ebreo, indipendentemente dalle sue idee politiche.

Una madre ebrea che accompagna suo figlio a scuola a Parigi, ma gli dice di togliere la kippah prima di uscire di casa; una ragazza che viene insultata a Berlino perché ha una collanina con la Stella di David; uno studente ebreo  che a New York, in un campus universitario, riceve minacce anonime per email.

Secondo il Centro Wiesenthal in Europa si sono moltiplicati gli attacchi a sinagoghe, i boicottaggi a negozi ebraici, le scritte sui muri, le aggressioni verbali e fisiche.   Negli USA, il fenomeno ha raggiunto livelli tali da costringere le università a chiudere i campus per motivi di sicurezza. Alcuni studenti ebrei sono arrivati a non sentirsi più benvenuti anche in ambienti progressisti.

Criticare Israele è legittimo, e sono io il primo a considerare Netanyahu  e i suoi ministri dei criminali, alla stregua di Putin.

Ma trasformare questa critica in sospetto verso ogni ebreo è una deriva pericolosa, perché una società che tollera questo scivolamento non è più sicura per nessuno.

Chi ha un minimo di coscienza storica dovrebbe avere un sussulto. 

E invece molti tacciono. Peggio: giustificano con frasi tipo: “Sì, ma Israele…”. 

Come se ogni ebreo fosse un ambasciatore di Netanyahu, e come se il diritto alla sicurezza personale degli ebrei in Francia o in Germania dipendesse dall’equilibrio geopolitico del Medio Oriente.

Ma osservo che parallelamente non si chiede a un musulmano europeo di condannare i crimini di Hamas.

Non si chiede ad ogni fedele islamico di dissociarsi da quello che viene fatto in Iran, in Iraq, in Afghanistan, in Yemen, in Siria, o da come vengono trattate le donne nel mondo arabo.

Non si chiede a un cinese di scusarsi per la repressione a Hong Kong. 

Non si chiede ad un russo di dissociarsi da quel criminale di Vladimir Putin.

E allora perché a un ebreo sì?

Il vero dramma, oggi, è il ritorno dell’antisemitismo travestito da giustizia sociale. 

Un odio che si crede nobile, ma che è cieco, feroce, e pericolosamente familiare. 

Ricordate che non comincia mai con le camere a gas; comincia con l’indifferenza,

C’erano una volta dei cartelli, appesi alle vetrine, piantati nei giardini, scritti a mano o stampati con zelo tipografico. 

Dicevano: “Vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”. Era la Germania degli anni ’30. E tutti sappiamo com’è andata a finire.

Oggi, novant’anni dopo, non siamo (ancora) a quel punto.

Ma i cartelli sono tornati; cambiati nella forma, identici nella sostanza. 

Sui social, nei cortei, perfino nei corridoi delle università italiane si leggono frasi come “Morte agli ebrei”, “I sionisti sono i nuovi nazisti”, “Gli ebrei fuori dai campus”. 

E l’aria che tira somiglia ogni giorno di più a quella che si respirava quando l’Europa cominciò la sua lunga discesa verso l’abisso.

Vedete, amici miei, c’è un momento, nella storia delle Nazioni, in cui l’odio smette di essere un sussulto, un’esplosione improvvisa di follia, e diventa una consuetudine, un’abitudine sociale, quasi un riflesso condizionato. 

È allora che bisogna fermarsi a pensare, a guardarsi dentro, e anche ad avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.

Non illudiamoci di essere immuni come italiani da questa nuova ondata di antisemitismo.

Prima a Napoli, dove una pizzeria ha esposto un bizzarro e ridicolo cartello con cui si autodichiarava zona libera dalla (inesistente) apartheid israeliana, e ha ottenuto ampia pubblicità per aver cacciato dal locale dei turisti israeliani. 

Poi la merciaia di via Statuto a Milano che nel suo caotico e umile negozietto ha  postato un cartello in ebraico con scritto che gli israeliani e i sionisti non sono benvenuti, salvo poi rimuoverlo e dire “Non sono razzista” (sic!).

La verità è che oggi anche in Italia si possono vedere manifesti che inneggiano all’esclusione degli ebrei. 

Nelle piazze, nei cortei, si alzano cartelli che evocano, senza alcuna vergogna, la violenza contro gli ebrei. 

All’interno delle Università, giovani studenti ebrei vengono insultati, inseguiti, aggrediti, come se il nostro Paese avesse smarrito completamente la memoria del Novecento. 

Ma non basta: tutto questo avviene sotto lo sguardo distratto, o peggio, compiaciuto, di Accademici e Rettori che sembrano più preoccupati di non “urtare” i facinorosi, che di difendere i valori democratici.

C’è un silenzio che pesa; c’è un’inerzia istituzionale che preoccupa; c’’è una tolleranza verso l’intollerabile che dovrebbe scuotere ogni cittadino libero. 

Perché in Italia oggi si può pubblicamente odiare gli ebrei. 

Si può fare, spesso, dietro la foglia di fico dell’“antisionismo”, come se odiare Israele, che è uno Stato, criticabile come tutti, desse licenza di delegittimare chiunque abbia un’identità ebraica.

Ma è questo il punto: quando la critica politica diventa sistematica demonizzazione, quando le parole “sionista” ed “ebreo” vengono usate come sinonimi nei cori d’odio, allora non siamo più nel campo della politica. 

Siamo nell’antisemitismo. Quello vero. Quello vecchio, ma travestito da nuovo.

E non è più il tempo di girarsi dall’altra parte; non è più il tempo delle ambiguità. 

Oggi come ieri, il nostro Paese deve scegliere da che parte stare. 

Non si tratta di difendere Israele, né di applaudire Netanyahu e la sua cricca, né di approvare ogni sua politica, in special modo la sua deprecabile aggressione a Gaza. 

Non si tratta di politica spicciola; si tratta di difendere la civiltà. 

Di riconoscere che l’antisemitismo è un veleno che, una volta iniettato, corrompe tutto: il dibattito, la convivenza, la democrazia.

Come ho già detto, in Germania quasi un secolo fa tutto cominciò con dei cartelli. Poi vennero le leggi, le violenze, i pogrom, i treni. 

Non è un paragone storico. È un ammonimento morale. E chi oggi minimizza, tace o “relativizza”, si assume una responsabilità gravissima.

L’odio verso gli ebrei non è un’opinione: è un crimine morale. 

E prima ancora che venga punito dai codici, deve essere estirpato dalle coscienze.

Ci riempiamo tanto la bocca di “Italia nata dall’antifascismo”, e proprio per questo sarebbe giusto stigmatizzare e combattere immediatamente ogni rigurgito antisemita che ci riporta indietro a tempi da dimenticare.

Perché diciamoci la verità; se quei cartelli cui accennavo prima riportassero scritte contro i neri o contro gli islamici o contro gli omosessuali, probabilmente quelle attività commerciali verrebbero subito chiuse. 

Ed è questo che dovrebbe preoccupare tutti noi, al di là di cosa pensi ognuno sulla guerra di Gaza. 

Quando viene impedito l’esercizio dei diritti ad una parte per quanto piccola della popolazione, tutti i veri democratici dovrebbero mettersi in allarme; tutti i campanelli della democrazia dovrebbero suonare.

Umberto Baldo 

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