16 Luglio 2025 - 9.40

Studenti fragili come porcellane mentre in Cina si svegliano alle sei per 12 ore di studio

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La scuola del piagnisteo e l’Asilo Mariuccia globale

Umberto Baldo

Ogni volta che scrivo un articolo sulla scuola italiana mi riprometto: “Mai più!”. 

Perché non voglio passare per il solito vecchio trombone, nostalgico del “si stava meglio quando si stava peggio”, con la foto in bianco e nero del maestro con la bacchetta sulla cattedra. 

E poi perché ogni volta mi viene il sangue amaro, ed alla mia età non fa bene.

Ma niente da fare, basta una notizia, un articolo, una dichiarazione infelice, e le mani mi prudono come se dovessi riscrivere il Codice Rocco.

Qualche giorno fa, sul sito “Orizzonte Scuola”, leggo la lettera di una liceale trentina che dipinge la scuola come un campo di sterminio emotivo. 

Studenti in lacrime, crisi di ansia, prof. spietati, corridoi trasformati in lazzaretti affettivi. 

Un incubo.

Scrive la ragazza: “Rinunciamo a qualsiasi attività extra scolastica per far fronte a un carico di studio che divora ogni energia. Paghiamo con l’ansia, con crisi di pianto, con la sensazione costante di non essere mai abbastanza”. 

E io che pensavo che la scuola servisse anche a farti capire proprio questo: che non sei abbastanza, finché non lo diventi!

L’eco della lettera provoca ovviamente un terremoto: il Dipartimento istruzione della Provincia interviene, ispezioni, relazioni, e infine la decisione di porre il Liceo sotto “sorveglianza speciale”. Come se fosse una centrale a carbone fuori norma. 

Manca solo l’ASL, ed un protocollo ONU per i diritti del minore sotto sforzo.

Ma veniamo al punto. 

Il problema non è la ragazzina, che ha tutto il diritto di sfogarsi,  ma il coro di adulti ansimanti che si inginocchia davanti alla fragilità come fosse un totem moderno. 

“I voti sono giudizi morali!”, “Lo studio uccide le passioni!”, “L’ansia è un’emergenza nazionale!” – denuncia la pargola. 

E giù fiumi di lacrime, dichiarazioni istituzionali, proposte di abolire il 4 perché “demotiva”.

Ma vogliamo dirlo una buona volta? Che razza di generazione abbiamo creato se un’insufficienza li distrugge come un bombardamento emotivo? Se un 7 al posto di un 9 scatena tempeste ormonali e minacce di crisi d’identità?

Io capisco che viviamo nell’era della fragilità, della “cura” e della “centralità della persona”. 

Ma quando la persona è educata come una porcellana di Sèvres, il mondo reale, quel mondo dove si compete, si cade, ci si rialza, la riduce in frantumi al primo ostacolo.

Una volta, nella scuola dei “bruti”, ti prendevi un 3 e a casa non trovavi abbracci terapeutici, ma padri e madri che ti spiegavano, in modo inequivocabile, che la prossima volta dovevi studiare di più.  Altro che “spazi di ascolto”. 

Gli spazi di ascolto c’erano: si chiamavano libri, e ore seduti alla scrivania. 

Adesso invece leggo che lo studio “divora le energie”, che le interrogazioni causano “traumi”, e che persino il concetto di “merito” è sotto attacco, perché “discriminatorio”. 

Ma discriminare chi? 

I somari dagli studiosi?

Ma se è proprio quello lo scopo dell’istruzione!

E mentre in Italia ci struggiamo per il carico di compiti, in Cina gli studenti si svegliano alle sei per 12 ore di studio, e in Ucraina, finito il liceo, molti ragazzi vanno al fronte con in mano un AK-47, non con un modulo per lo sportello psicologico.  E siate certi che al fronte non troveranno certo il “sergente di sostegno”!

Siamo passati dal “vincere il concorso” al “partecipare con sensibilità”. Dal “sapere è potere” al “sentirsi a proprio agio”. 

E tutto questo mentre il mondo va avanti, corre, seleziona, promuove chi si impegna e schiaccia chi si lagna.

E sia chiaro: non sto difendendo il sadismo. 

Nessuno vuole la scuola del trauma e del terrore. Ma un po’ di stress, di confronto, di fatica, servono.  

Perché la vita non è uno “spazio protetto”, e chi non impara a faticare da giovane, fallirà da adulto. 

Ma fallirà senza neppure capirlo, convinto che sia colpa del “sistema”.

Chi vuole una scuola senza voti, senza giudizi, senza pressione, non vuole educazione. 

Vuole un recinto emotivo dove crescere cuccioli da accudire a vita, un “Asilo Mariuccia” globale. 

Ma una scuola così non forma cittadini: forma pazienti. 

Da affidare poi a una classe medica altrettanto fragile, che prescriverà mindfulness e gattini.

E allora diciamolo chiaro, prima che sia troppo tardi: abbiamo un bisogno disperato di merito, eccellenza, rigore. 

Non per sadismo, ma per giustizia. 

Perché la scuola non deve essere un centro benessere dell’anima, ma un’officina della crescita.

Altrimenti ci troveremo una generazione di adulti eternamente bambini, con la sindrome del “non ce la faccio” tatuata nell’anima. 

E saremo stati noi a ficcargliela dentro, iniettando protezione dove serviva fatica, conforto dove serviva confronto.

E nonostante tutto continuiamo a trasformare la scuola in una clinica della fragilità, a medicare ogni voto basso con una tisana ed un colloquio motivazionale, a sostituire i professori con animatori dell’umore. 

Continuiamo a proteggere i ragazzi dalla fatica, dal fallimento, dal confronto, come se crescere fosse un trauma e non una conquista.

Ma ricordiamoci che quando questi stessi ragazzi usciranno dalla scuola per entrare nella vita vera, quella dove i voti si chiamano contratti, responsabilità, concorrenza e selezione, nessuno gli regalerà un abbraccio perché sono in difficoltà emotiva.

Perché là fuori non ci sarà nessuna commissione di “sorveglianza speciale” a tutelarli. 

Solo un mondo spietato che non fa sconti a chi non è pronto. 

E in quel momento, anche quegli stessi che oggi protestano, ci guarderanno, smarriti e arrabbiati, e ci chiederanno: “Ma perché non mi avete preparato?”

E noi non sapremo dove guardarli. 

Perché saremo stati noi a tradirli. 

Con il sorriso. Con la comprensione. Con la pedagogia a buon mercato.

E allora sì, sarà troppo tardi per spiegargli che merito non è una parolaccia.

Che disciplina non è fascismo.

Che fallire fa parte del gioco.

E che una scuola senza fatica e senza  dolore è solo il preludio a una vita senza spina dorsale.

Umberto Baldo

PS: evidentemente la deriva della scuola sta crescendo, visto che il prof. Alessandro Minello, economista, Adjunct Professor dell’Università di Ca’ Foscari di Venezia, ha reso nota la lettera di uno studente che gli ha chiesto, a fronte di un esame scritto non superato, di dargli lo stesso un 18 per poter così finire tutti gli esami e potersi dedicare alla tesi. Il docente ha commentato amaramente che mai finora gli era capitata una richiesta di voto esplicita: “Ecco, forse non abbiamo insegnato ai ragazzi ad affrontare le difficoltà. Gli abbiamo sempre risolto tutto e abbiamo riposto in loro aspettative per le quali non sono preparati”.

Lascio a voi ogni ulteriore commento.

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