Referendum sulla Giustizia o una guerra di religione?

Umberto Baldo
In Italia ogni Referendum diventa, immancabilmente, un “Rubicone”.
Una linea invalicabile, una battaglia tra il Bene e il Male, un preludio all’Apocalisse.
Eppure, al netto dei toni epici, spesso si tratta solo di capire se un sistema può funzionare meglio.
Ma guai a dirlo: i nostri politici, abituati a considerarsi padroni esclusivi del gioco, mal sopportano l’idea che un voto popolare possa intromettersi nei loro equilibri di potere. Per loro l’unico voto che conta è quello che serve per essere rieletti.
Figuriamoci poi se si tocca la Magistratura: apriti cielo.
Da qui al giorno del voto ci toccherà subire un bombardamento mediatico senza precedenti.
E intanto, mentre in Europa si parla di Intelligenza Artificiale, di guerra e di geopolitica, di economia e di commercio mondiale, noi restiamo prigionieri del nostro eterno conflitto tra Politica e Magistratura.
Una situazione da asilo infantile: con una parte si sostiene che le toghe hanno invaso la sfera del potere politico, e l’altra che risponde che il Governo attenta all’autonomia della magistratura. Nel mentre nessuno parla del testo della riforma.
Una querelle che il resto del mondo guarda con stupore, quando non con ironia: l’Italia dei mille talenti, ma anche delle infinite riforme annunciate e mai realizzate.
Parole come carriere separate, garantismo, giustizialismo, attentato all’indipendenzasaranno ripetute fino allo sfinimento, da una parte e dall’altra.
E come sempre, alla fine, il cittadino rischia di non capirci più nulla, tanto più che si tratta di una materia di rilevanza costituzionale, per cui servirebbe almeno una certa infarinatura giuridica.
Ma soprattutto rischia di non capire, (o forse si vuole che non capisca) che alla fine l’unico vero oggetto del contendere è la composizione dei due Csm (la separazione delle carriere di fatto c’è già da anni, visto che il passaggio da giudice a Pm avviene oggi nello zero virgola per cento dei casi).
E la divisione del Csm la si vuole per sottrarla al dominio spartitorio delle correnti della Magistratura, che ha mostrato il peggio di sé in svariate occasioni. Da qui la proposta del sorteggio dei membri. Che non sarà il miglior metodo del mondo, ma almeno non consente accordi sotterranei.
E allora, prima di addentraci nelle “beghe” nostrane, io partirei dalla domanda più semplice: ma negli altri Paesi, come funziona?
Cominciamo dalla Francia, dove il corpo giudiziario è unico, ma distinto tra magistrati di siège (giudicanti) e di parquet (requirenti).
I Pubblici Ministeri dipendono gerarchicamente dal ministro della Giustizia, rappresentando di fatto gli “agenti” dell’Esecutivo presso i Tribunali..
Ciononostante, l’organo di autogoverno – il Conseil supérieur de la magistrature – garantisce un certo equilibrio: due sezioni, una per i Giudici, una per i Pubblici ministeri.
In Germania la separazione è più netta.
I Pm sono sottoposti alle direttive del Procuratore Generale e del Ministro della Giustizia, mentre i Giudici vengono nominati e promossi da autorità politiche o da commissioni miste dove siedono anche parlamentari e rappresentanti dell’ordine giudiziario.
Non va trascurato che la Germania è una Repubblica Federale e di conseguenza va sottolineato che in alcuni Länder la nomina è effettuata da una commissione “e spesso ne fanno parte parlamentari, rappresentanti dei magistrati e anche dell’ordine degli avvocati”. In altri Länder il Ministro della Giustizia acquisisce il parere non vincolante del Präsidialrat, organo di rappresentanza dei giudici con compiti di reclutamento, mentre in altri ancora la scelta «è affidata esclusivamente al potere discrezionale del Ministro della Giustizia».
Insomma, la politica c’è, ma non sembra compromettere il buon funzionamento del sistema.
In Spagna, le carriere sono formalmente distinte: Giudici da una parte (carrera judicial), Pubblici Ministeri dall’altra (carrera fiscal).
Il Procuratore Generale dello Stato è nominato dal Re su proposta del Governo, ma deve essere un giurista di “riconosciuto prestigio”; una formula che in Italia farebbe già ridere metà del Parlamento.
Passiamo al Regno Unito, dove tutto è diverso.
Il sistema di common law si fonda sulla giurisprudenza, più che sulla legge scritta.
Il Crown prosecutor (Pubblico Ministero) è un avvocato, alle dipendenze del Director of Public Prosecutions, nominato dal Governo e supervisionato dall’Attorney General, cioè il consulente legale della Corona.
Un meccanismo che funziona da secoli senza che nessuno gridi all’attacco della democrazia.
In Portogallo, invece, la Costituzione sancisce la separazione netta tra giudici e PM, i quali godono di piena autonomia ed hanno un proprio statuto.
E infine gli Stati Uniti, un altro pianeta.
Lì il District Attorney (il nostro Pm) in alcuni Stati è un funzionario eletto dai cittadini.
In altri Stati è nominato dal Governatore, ma in tutti i casi è un avvocato, soggetto alle regole della professione.
Come in Inghilterra, negli Usa è la Polizia che conduce le indagini, ed il Pm decide se esercitare o meno l’azione penale sulla base della consistenza delle prove acquisite.
Anche negli States la giustizia – pur con mille contraddizioni – cammina.
Dunque, ricapitolando: è vero che dove le carriere sono separate (quasi ovunque) i Pubblici Ministeri dipendono spesso dal potere politico.
Eppure, nessuno di questi Paesi è allo sbando.
Anzi, i sistemi giudiziari di Francia, Germania, Spagna o Stati Uniti funzionano mediamente meglio del nostro.
E lo sanno bene ad esempio l’ex Presidente francese Nicolas Zarkozy, fresco carcerato, l’ex re di Spagna Juan Carlos costretto alle dimissioni dalle inchieste dei Pm iberici, l’ex duca di York Andrea Windsor fratello del Re, e lo stesso Bill Clinton a suo tempo messo in croce dagli inquirenti.
Allora la domanda è inevitabile: perché, pur a “carriere unite” come adesso, la giustizia italiana è tra le più lente e le più farraginose d’Europa?
Perché i processi durano anni, le imprese straniere scappano o non investono, ed il cittadino onesto non crede più nella certezza della pena?
Forse perché il problema non è la “separazione delle carriere”, ma un Apparato giudiziario allo sbando da decenni – disorganizzato, sottodimensionato, poco finanziato, sommerso da carte e da una burocrazia bizantina, e da leggi scritte più per gli avvocati che per i cittadini.
E qui veniamo al punto: a mio avviso in Parlamento ci sono troppi avvocati, e troppo pochi cittadini.
Si legifera non per rendere i processi rapidi, ma per renderli complicati, alla fine favorendo non il cittadino qualunque, ma solo chi ha soldi per permettersi un ottimo legale.
Si difende la “giustizia” a parole, ma nei fatti la si paralizza.
Nel frattempo, come sempre, la politica trasforma tutto in un duello tra opposti assoluti: Meloni contro Schlein, garantisti contro giustizialisti, destra contro sinistra.
Una guerra ideologica che appassiona solo i protagonisti.
Il cittadino, quello vero, sbadiglia.
E mentre loro discutono su chi sia più garantista o più giustizialista, o finanche più o meno fascista, il Sior Bepi e la Siora Maria cercano di capire – invano – quale sia davvero l’oggetto del contendere del Referendum.
Vedrete che da qui alla primavera avremo modo di tornare molte volte sull’argomento.
Ma una cosa va detta chiara fin da ora: questa non è la riforma della giustizia.
È solo la riforma dell’Ordinamento della Magistratura; anzi più restrittivamente la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura.
La vera Giustizia è un’altra cosa: quella che restituisce ai cittadini fiducia, efficienza e tempi umani nei processi.
Finché non lo capiremo, continueremo a discutere del dito mentre il mondo guarda la luna.
Umberto Baldo













