29 Settembre 2021 - 9.36

La “Patata bollente” di Feltri e la libertà di stampa

di Umberto Baldo

E’ inutile negarlo! A tutte le latitudini, sotto tutti i cieli, il “Potere” non ama la libertà di stampa.
Ai politici i giornalisti vanno bene quando si prestano a fare da grancassa alle loro “rodomontate”, ma diventano insopportabili quando fanno il loro mestiere, che è semplicemente quella di dare notizie, di dire la verità, anche quando questa risulta scomoda, perchè mette a nudo la parte meno nobile, per usare un eufemismo, dall’arte di governo.
Tralasciando ovviamente gli Stati autoritari, e sono la maggioranza nel mondo, in cui i cronisti scomodi o comunque “non allineati” si arriva ad ucciderli o a farli sparire, nelle democrazie il gioco di fa più “sottile”, ed il potere costituito cerca di condizionare la libera stampa utilizzando altri strumenti, solitamente quelli di carattere giudiziario, consentendo che il diritto di cronaca e la libertà di critica vengano perseguiti nei Tribunali, con il rischio di essere incarcerati o condannati a risarcimenti milionari.
Il tutto nella logica del “punirne uno per educarne cento”!
Tutta questa premessa per arrivare alla vicenda di Vittorio Feltri, per il quale un Pm di Catania ha chiesto tre anni e quattro mesi di reclusione, più 5mila euro di multa, per l’articolo del 10 febbraio 2017 dedicato al sindaco di Roma Virginia Raggi, dal titolo «Patata bollente».
Voglio subito sgombrare il campo da eventuali osservazioni.
Lo so bene che Vittorio Feltri è un personaggio “ruvido”, abituato a gesti clamorosi, per alcuni anche “fazioso”. Ma se dovessimo condannare tutti i giornalisti ed i direttori di giornali percepiti come faziosi, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta.
Ma non è questo il punto.
Qui non si tratta di giudicare l’uomo Feltri, ed il suo carattere spigoloso, bensì il giornalista che quattro anni fa ha pubblicato su Libero un suo articolo sul Sindaco di Roma Virginia Raggi, con il titolo “Patata bollente” che campeggiava sotto la testata.
Titolo a mio avviso volutamente ambiguo, perchè può essere letto in due accezioni. Quella di “problema scabroso, di difficile soluzione”, o quella a chiaro riferimento sessuale/anatomico.
Interpretazione quest’ultima sposata dalla Raggi, che la reputò “volgare e sessista”, perche non consisteva in “nessun diritto di cronaca” né di “critica politica”, bensì soltanto in “parole vomitevoli”.
Per questi motivi presentò querela contro Feltri ed il Direttore responsabile di Libero Pietro Senaldi.
Ma non è il processo in corso nella città etnea l’aspetto a mio avviso più interessante, bensì quello squisitamente politico.
Già perchè il problema non è nuovo, tanto che la Corte Costituzionale aveva stabilito che le norme in vigore, vecchie di sessant’anni, che obbligano il giudice penale a comminare il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa, sono “incostituzionali” perchè “contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta dalla Costituzione e dalla Convenzione Ue dei diritti dell’uomo”. Concludendo che “la minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo”.
Come sempre succede di fronte ad una pronuncia della Corte, la politica sembrava volersi attivare in tempi rapidissimi per sistemare le cose.
E così dopo un veloce passaggio in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, il Presidente si sbilanciò affermando che la riforma sarebbe potuta arrivare in tempi rapidi alla Camera dei Deputati per l’approvazione definitiva.
Eravamo nel 2020, e da allora non se n’è fatto più nulla, nonostante tutti i Partiti si fossero dichiarati d’accordo.
Eppure la Consulta era stata chiarissima nello stabilire che non esiste un obbligo costituzionale che imponga al legislatore di prevedere il carcere per i casi di diffamazione a mezzo stampa, e che una pena detentiva è concepibile solo nei casi limite dell’aperta istigazione alla violenza.
Va altresì segnalato che nelle nebbie del Senato si è persa un’altra proposta di legge, che regolava le cosiddette “azioni temerarie” contro i giornalisti scomodi, chiamati spesso a risarcimenti milionari al solo scopo di impaurirli e di imbavagliarli.
Certo adesso, dopo la richiesta di condanna per Feltri, tutti i politici si stanno sbracciando nel ribadire la ferma volontà del Governo e della maggioranza di cancellare il carcere per i giornalisti, e porre un limite alle “querele bavaglio”.
Ma dati i precedenti, anche in considerazione che la Consulta nel 2020 ha per ben due volte invitato il Parlamento ad intervenire adeguando la legislazione, c’è solo da sperare in un sussulto di dignità di Deputati e Senatori, per porre una pietra tombale sopra i “reati di opinione” a mezza stampa, esclusa ovviamente la palese istigazione alla violenza.
Quello del rapporto fra giornalismo e diffamazione è un problema che si protrae dall’inizio della Repubblica, tanto che è passato alla storia il caso di Giovannino Guareschi, che negli anni ‘50 venne addirittura incarcerato per una vignetta sul Presidente Einaudi.
Il problema è che, in assenza di una normativa chiara, tutto è affidato alla prudente valutazione di un giudice, con evidenti rischi di notevoli difformità di interpretazioni.
Tanto per fare un solo esempio, dopo un editoriale del Fatto Quotidiano su Matteo Salvini, titolato “Il Cazzaro verde”, il Capitano querelò il direttore Marco Travaglio. Questa querela venne però rigettata dal Gip con la motivazione “il giudice, avvalendosi di un’ampia giurisprudenza, ha motivato la decisione riconoscendo il carattere di satira basata su iperboli e coloriture anche aspre del linguaggio, modalità espressive funzionali e proporzionate all’opinione espressa e dunque non punibili». E questo perché «gli articoli di satira, se rispettano il criterio della continenza, si basano su un linguaggio “essenzialmente simbolico e paradossale, fermo restando il limite del rispetto dei valori fondamentali, limite che non è stato superato”.
Evidentemente titolare “Il Cazzaro verde” rientra nella satira consentita, mentre “Patata bollente“ no.
Capite bene che queste diverse interpretazioni si prestano alle polemiche, sempre presenti, di chi sostiene che la giustizia si comporterebbe in modo diverso a secondo che il querelante sia orientato a destra piuttosto che a sinistra.
A questo punto c’è solo da augurarsi che al processo di Catania prevalga il buonsenso, e che il Parlamento faccia il suo dovere, decidendo una volta per tutte di cassare dal nostro ordinamento norme che, comunque la si pensi, sono indegne di una democrazia.
Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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