15 Dicembre 2025 - 10.09

La cucina italiana è patrimonio UNESCO. Finalmente il mondo scopre ciò che gli italiani sanno da sempre (più o meno)

Di Alessandro Cammarano

È fatta: la cucina italiana è stata proclamata Patrimonio Immateriale dell’Umanità dall’UNESCO, seguendo quella francese e quella tradizionale messicana che – per dovere di cronaca – hanno ricevuto lo stesso onore nel 2010.
Una notizia che in Italia è stata accolta con giubilo nazionale, titoloni, istituzioni in festa e la consolante sensazione che, almeno a tavola, il Paese riesca ancora a eccellere senza dover litigare su tutto.
La candidatura — dedicata alla “diversità bioculturale”, alla biodiversità agricola, ai saperi diffusi, ai riti sociali attorno ai fornelli e alla tavola — è stata approvata nei giorni scorsi, a Nuova Delhi. E noi, nel dubbio, abbiamo immediatamente trasformato il tutto in un proclama: “Siamo i migliori del mondo”.
Sottotitolo non dichiarato ma percepibile: “Finalmente qualcuno se n’è accorto”; eppure, come sempre succede quando qualcosa viene chiamato “tradizione”, bisognerebbe ricordare che la cucina italiana così come la celebriamo oggi — bella, orgogliosa, filologicamente attenta, esteticamente compiuta — è un’invenzione recente, anzi recentissima, quasi imbarazzante da quanto poco tempo sia passato.

Sì, abbiamo secoli di pasta, pani, formaggi, salumi e stoviglie che tintinnano nelle cucine domestiche, ma la ristorazione — quella che oggi consideriamo “alta”, o anche solo “decente” — fino a pochissimi decenni fa era un’altra cosa. E non in senso buono.

Fino agli anni Settanta, e spesso anche oltre, una parte non trascurabile dei ristoranti italiani viveva in quello strano limbo chiamato trattoria pretenziosa: tovaglie troppo spesse per la qualità del sugo, presentazioni da matrimonio anni Cinquanta, e quell’idea di “lusso” che coincideva con la panna ovunque, l’astice morto di tristezza su piatti ovali, la foglia di lattuga a decorazione e la salsa rosa come collante universale.

Un tempo glorioso in cui si confondeva l’abbondanza con la qualità, e l’internazionalità con il cocktail di gamberi; poi è arrivato il meteorite: Gualtiero Marchesi.

A Milano, tra la fine dei Settanta e gli Ottanta, Marchesi ha fondato praticamente da solo la modernità gastronomica italiana: qualità rigorosa, estetica sobria, forme pulite, ingredienti selezionati, territorio e tradizione reinventati senza complessi d’inferiorità verso la Francia. Marchesi non portò nei ristoranti “la cucina italiana”: portò dignità estetica e tecnica alla cucina italiana. Che, fino ad allora, ne aveva un bisogno disperato.

Da lì, un effetto domino: gli chef formati alla sua scuola, la nascita di nuove generazioni culinarie, il progressivo ritorno delle cucine regionali — quelle vere — all’interno di ristoranti che finalmente non avevano paura di servire piatti popolari con orgoglio e rigore.

La rivoluzione sta in questo: la cucina italiana che oggi l’UNESCO celebra esiste nei ristoranti solo da pochi decenni. Prima, era in casa. E spesso solo lì.

È questa miscela — antichissima e modernissima, contadina e colta, popolare e raffinata — che ha convinto l’UNESCO: non un piatto, non tre ricette simbolo: tutto il sistema. Il modo in cui le famiglie cucinano, i territori producono, le comunità tramandano e perfino il modo in cui gli italiani discutono animatamente se sia meglio il ragù bolognese con tre ore di cottura o con cinque (risposta diplomatica: dipende da chi è in cucina).

Si premia la biodiversità: dai pomodori del San Marzano alle mele della Val di Non, dai pecorini sardi alle acciughe liguri. Si premiano le pratiche sociali: la domenica dai nonni, i pranzi delle feste, i dolci rituali, il rispetto di ciò che il territorio offre. E si premia la cultura diffusa che fa sì che ogni italiano, in ogni condizione sociale, sappia riconoscere quando una pasta è scotta con una precisione che sfiorerebbe la mania clinica, se non fosse così squisitamente nazionale.

E adesso cosa succede??

Si parla di benefici economici, di turismo gastronomico che aumenterà, di tutela contro le imitazioni. Tutto vero. Ma c’è anche un’ombra di responsabilità: ora che il mondo ha sancito che la cucina italiana è patrimonio dell’umanità, toccherà a noi evitare che diventi una cartolina.

La cucina italiana è cambiata tanto in pochi decenni. E continuerà a farlo. Non è una foto ingiallita, è un organismo vivente, un grande animale culturale in costante metamorfosi.
Dalle osterie alle trattorie, dalle cucine domestiche ai ristoranti stellati, ogni luogo ha contribuito alla costruzione di questa identità gastronomica che ora il mondo intero ci riconosce.

E sì: forse è davvero la migliore cucina del mondo, ma lo è perché non smette mai di cucinare, discutere, reinventare, litigare e godere.

E perché — questo ormai è certificato — quando gli italiani mangiano, non stanno solo mangiando: stanno praticando la loro forma più seria e insieme più allegra di cultura.

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Testata Street Tg Autorizzazione: Tribunale Di Vicenza N. 1286 Del 24 Aprile 2013

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