6 Aprile 2023 - 8.38


Burocrazia –  La vera “palla al piede” della nostra Italia

Vi sarete certamente accorti che nel nostro Paese ogni timido accenno di riforma, sia che si tratti dell’iter dei procedimenti, sia della regolamentazione degli appalti, solo per fare un paio di esempi, è sempre accompagnato dalla perentoria affermazione “ridimensioneremo la Burocrazia”. 

A chi come me ha molte primavere sulle spalle questi “annunci”, questi “propositi”, escono addirittura dalle orecchie, tante sono le volte che li abbiamo sentiti ripetere, Governo dopo Governo.  

A nessuno sfugge che la logica del buon governo vorrebbe che invece che ingolfare gli apparati, le  Istituzioni,  la semplice vita quotidiana dei cittadini, con adempimenti, cose da fare, obblighi e divieti, dovremmo fare l’opposto: svuotare, semplificare, ridurre, usare il buon senso comune, adottare linguaggi e procedure comprensibili da tutti. 

Purtroppo una vera deregulation burocratica in questo Paese non si è mai fatta, sia perché mettere mano alla macchina elefantiaca dell’apparato pubblico è estremamente difficile, sia perché, a mio avviso, al di là delle parole roboanti e degli impegni “epocali”, ai nostri Demostene le cose vanno bene così. 

Magari perché sono consci del fatto che “i politici passano, i burocrati no”.

Un esempio che mostra più di ogni altro cosa sia una burocrazia inefficiente lo stiamo vivendo in questi mesi, in cui lo Stato non è neppure in grado di fornire il passaporto ai cittadini che lo richiedono.

Ma è una conseguenza della pandemia da Covid! Ci viene detto a giustificazione.

Verrebbe da tirare giù tutti i Santi del paradiso.  

Ma il Covid  lo abbiamo avuto solo in Italia?  

Eppure non ci sono notizie che altri Stati europei abbiano difficoltà a dotare i propri cittadini dei documenti per l’espatrio!

E così il “ripassi fra sei mesi” (e anche oltre) rimane la regola, in Questura per il passaporto, come in altri Uffici per una autorizzazione.

Parimenti, gli enormi problemi che si stanno riscontrando nell’attuazione del Pnrr dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, che purtroppo non basta fare le conferenze stampa in diretta Tv per annunciare le riforme previste, non basta neppure approvare le leggi, se poi tutto si blocca perché non si riescono a fare i regolamenti attuativi, e gli uffici non sono in grado di gestire le pratiche.

Il problema è tutto qui; nel vuoto temporale lunghissimo che intercorre fra l’approvazione di una norma ed il suo “lancio mediatico”, e la sua applicazione nella realtà. 

Ricordo che il Pnrr è il risultato di un complicatissimo negoziato con la Ue, avente lo scopo preciso di acquisire finanziamenti, per oltre la metà a debito, da finalizzare a politiche economiche di rilancio e crescita, il cui presupposto doveva essere  l’introduzione di riforme, in particolare alcune finalizzate da una parte al rafforzamento della Pubblica Amministrazione, e dall’altra alla razionalizzazione dell’apparato burocratico.

Le cronache di questi giorni ci mostrano che l’unico problema che i politici a suo tempo si sono posti è stato quello di portare a casa la maggior quantità possibile di fondi europei, senza porsi preventivamente il problema se i nostri apparati pubblici sarebbero stati in grado di spenderli nei tempi previsti, e se ad esempio i Comuni sarebbero riusciti a gestire progetti, gare d’appalto e lavori.

La realtà ci mostra, come ha finalmente riconosciuto anche il Ministro Giorgetti che “la messa a terra del Piano ha posto sotto stress la struttura burocratica della Pubblica Amministrazione, che probabilmente non era e non è all’altezza di sostenere questo tipo di choc di domanda” (sic!). 

E sulla base di queste ragionevoli considerazioni, basate sulla realtà, qualche politico ha timidamente affermato che forse “sarebbe il caso di rinunciare ad una parte dei fondi a debito del Pnrr” perché “spenderli per spenderli senza identificare i progetti realmente necessari non ha senso, visto che si tratta comunque di soldi che vanno a pesare sulle finanze degli italiani”.

Ipotesi sdegnosamente respinta dalla Premier Giorgia Meloni, ben conscia della figura “barbina” che l’Italia farebbe nei confronti degli altri partner europei.

Qualcuno di voi mi ha scritto che io avrei un occhio di riguardo, quasi un’ammirazione, per la Spagna.

E’ vero, non solo perché per motivi personali è il paese Europeo che forse conosco meglio, ma anche perché trovo corretto il raffronto fra Italia e Spagna, in quanto entrambi Paesi latini e mediterranei.

Ma anche stavolta il confronto è impietoso per noi, perché la Spagna, unico Paese che corre in Europa, venerdì 31 marzo ha incassato la terza tranche di 6 miliardi del Pnrr (quella di cui noi stiamo ancora discutendo con la Commissione, e che vale 19 miliardi).     L’unico Paese, sottolineo!

E sapete perché la Spagna ormai ci sopravanza in quasi tutti i settori?

Per il semplice motivo che l’apparato dello Stato funziona, e che la burocrazia iberica assomiglia per efficienza e velocità più a quella tedesca che alla nostra, che sembra ancora ispirata al modello borbonico.

E’ il modello, la struttura, la mentalità,  della nostra burocrazia che non sono più adeguati ai tempi.

Per attuare il Pnrr servirebbero energie giovani, competenze nuove, apertura alle nuove tecnologie e al digitale, conoscenza delle regole della progettazione e rendicontazione delle risorse europee, tecnici capaci di garantire la realizzazione dei progetti. 

Noi abbiamo invece continuato a privilegiare competenze di tipo giuridico, e non è un caso se nella Pubblica Amministrazione i laureati in giurisprudenza abbondano, mentre di ingegneri ed informatici, ad esempio, ce ne sono pochini.

Se a questo aggiungiamo riduzione degli organici, selezione all’acqua di rose, responsabilità penali connesse alla professione, trattamenti economici più bassi del settore privato, capite bene perché ormai, cosa impensabile fino a qualche anno fa, i concorsi pubblici vadano quasi deserti.

Ci mancava poi la genialata delle cosiddette “progressioni verticali”, ovviamente molto spinte dal Sindacato, che consistono in procedure selettive di carriera riservate esclusivamente a dipendenti interni.  

Con il bel risultato che nel mentre si lamenta una Pubblica Amministrazione composta ormai da dipendenti anziani con competenze obsolete e inadeguate, dall’altro si rinuncia a ricorrere al mercato, per reperire giovani competenti, in ossequio alla “progressione verticale”, che consente, credetemi sulla parola, di promuovere “internamente” a funzioni superiori personale talvolta anche privo dei titoli di studio richiesti per il nuovo ruolo. 

Capite bene come la progressione verticale sia lo strumento ideale per premiare la fedeltà politica dei dipendenti pubblici rispetto alla professionalità.

Ma questa idiosincrasia per il mercato, unita ad una cronica allergia alla concorrenza, sono ormai gli elementi che caratterizzano l’Italia. 

Queste carenze sono ancora più evidenti nelle amministrazioni del meridione.

Ma d’altronde, se il posto pubblico lo si è sempre concepito come ammortizzatore sociale anziché come supporto per il settore privato, se una classe politico-sindacale ha culturalmente rifiutato la concorrenza, la competizione, la meritocrazia, il risultato non poteva che essere quello che oggi tocchiamo con mano; e credetemi che la bacchetta magica per dare una svolta al nostro apparato burocratico, ed alle sue croniche inerzie ed inadeguatezze, non ce l’ha la Meloni, e neppure i patrioti della destra. 

E se alla fine nulla cambierà, come altamente probabile, l’Italia del dopo Pnrr sarà terribilmente simile a quella del prima, solo con un maggiore debito sulle spalle dei nostri ragazzi.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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