Se per la pace in Medio Oriente serve Di Maio, forse il problema è l’Onu

Umberto Baldo
Mi piacerebbe davvero sapere dove abbia sede, all’Onu, l’ufficio preposto alla “ricerca dei cervelli”.
Se poi vogliamo dirla in modo più chic, brain research o talent scouting, che fa sempre molto Silicon Valley e molto poco “Palazzo di Vetro”.
Capisco bene che non sia semplice, su scala planetaria, scovare personalità dotate di carisma, competenza e autorevolezza tali da rappresentare la massima organizzazione internazionale del mondo.
Non lo metto in dubbio. Anzi, lo riconosco senza ironia.
Ma riconosciuto questo, una domandina – piccola piccola – viene spontanea: con quali criteri vengono scelti questi “rappresentanti speciali” dell’Onu?
Perché, sulla carta, dovrebbero essere esperti indipendenti, figure super partes incaricate di monitorare, promuovere e proteggere i diritti umani, oppure di affrontare crisi epocali: fame, povertà, tortura, conflitti armati. Robetta leggera, insomma.
In genere non sono nemmeno retribuiti, lavorano per mandati triennali rinnovabili, riferiscono direttamente agli organismi Onu – Consiglio per i Diritti Umani in testa – e dovrebbero garantire supervisione imparziale, assistenza tecnica ai governi, indagini e rapporti pubblici.
Un curriculum, per così dire, che normalmente non si improvvisa tra un talk show ed una diretta Facebook.
Un esempio recente lo abbiamo avuto sotto gli occhi tutti i giorni: Francesca Albanese, relatrice speciale Onu sui territori palestinesi occupati dal 2022.
Lascio volentieri a ciascuno di voi il giudizio su di lei.
Ora però pare che si voglia fare un ulteriore salto di qualità.
È in arrivo la nomina di un nuovo “Coordinatore speciale Onu per il processo di pace in Medio Oriente”, dopo che la precedente titolare, la diplomatica olandese Sigrid Kaag, ha lasciato l’incarico a giugno con parole tutt’altro che concilianti.
La Kaag, andandosene, ha detto una cosa disarmante nella sua semplicità: “Se non esiste più un vero processo di pace, il ruolo stesso del coordinatore per il processo di pace perde senso. Quella funzione era nata con gli Accordi di Oslo, quando si parlava seriamente di due Stati. Oggi quel contesto non c’è più. E allora la domanda è inevitabile: questa istituzione ha ancora ragione di esistere?”
Domanda perfetta. Centrata. Imbarazzante.
Ma all’Onu – si sa – le caselle vanno comunque riempite.
Anche quando il gioco è fermo, il tabellone resta acceso.
E così, secondo le indiscrezioni sempre più insistenti, la selezione sarebbe confluita su un nome di assoluto peso internazionale: Luigi Di Maio.
Sì, proprio lui. L’uomo che aveva cancellato la povertà in Italia.
L’ex ministro degli Esteri e Vicepresidente del Consiglio, oggi rappresentante speciale dell’Unione europea nel Golfo Persico (secondo mandato), sarebbe il primo candidato per diventare Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente.
Un incarico che lo vedrebbe coordinare i vari enti Onu nell’area, compresi quelli coinvolti nel piano per Gaza promosso dagli Stati Uniti.
Il via libera alla nomina sarebbe già arrivato da tutti: soggetti internazionali, Unione europea e – udite udite – anche dal governo italiano.
La stessa Ue, a inizio anno, aveva definito “eccellente” il suo lavoro nel Golfo Persico, che teoricamente dovrebbe proseguire fino al 2027.
Se nominato, la nuova sede di lavoro di “Giggino” sarebbe Gerusalemme e l’incarico comporterebbe automaticamente il rango di Vice Segretario Generale dell’Onu.
Non bruscolini, diciamo.
Ora, io sarò anche prevenuto. Sarò anche uno “il cui forte non è il capire”.
Ma davvero non riesco a non chiedermi: che cosa mi sfugge?
Possibile che, tra ex Capi di Stato, ex Capi di Governo, diplomatici di carriera con decenni di negoziati alle spalle, l’unico nome davvero spendibile sia quello di Luigi Di Maio?
Davvero il pianeta Terra, nel 2025, ha esaurito il suo parco competenze a tal punto?
Forse sì.
Forse sono io che sto scivolando lentamente verso una forma di demenza senile che mi impedisce di cogliere l’evidenza: siamo di fronte a un novello Metternich, a un Talleyrand dei tempi moderni, solo più social e meno parruccone.
Oppure – ipotesi alternativa, ma sempre più plausibile – questa vicenda rappresenta l’ennesima dimostrazione che quel grande carrozzone con sede a New York è ormai fuori sincrono rispetto al mondo reale, incapace di leggere la nuova fase geopolitica, autoreferenziale e prigioniero delle sue stesse liturgie.
E allora, forse, prima o poi, qualcuno dovrà porsi seriamente la domanda che Sigrid Kaag ha solo accennato.
E cioè se non sia arrivato il momento di spegnere le luci, abbassare il sipario e ammettere che, così com’è, l’Onu serve più a sistemare carriere che a risolvere conflitti. Forse Trump non ha tutti i torti quando afferma che è arrivato il momento di sbaraccare tutto.
Ma magari mi sbaglio.
Aspettiamo fiduciosi. Con Di Maio, la pace è dietro l’angolo.













